Francesco De Sanctis,
tutto sommato, non necessita oggi di particolari inviti alla lettura.
Il suo piglio, il suo genio, la sua veemenza, i suoi apoftegmi, le
sue sciabolate fulminee, i suoi adagia sono irresistibili oggi
come cento anni fa. Potremmo chiederci se e come e perché leggere
oggi Enrico Nencioni o addirittura Giosuè Carducci, i suoi
detrattori di allora. De Sanctis no, lo leggiamo. E grazie a lui,
critico militante per eccellenza ci chiediamo innanzitutto: a che
serve, oggi, la nostra letteratura? A che servirà?
Se De Sanctis avesse
ragione, e il suo Hegel avesse ragione, il nostro Paese, tanto
problematico oggi, domani sarebbe progredito in «una coscienza
sempre più chiara di sé» e in «una maggiore realtà». Lo spirito
ha le sue leggi e anche il male la somma degli attuali mali italiani
che abbiamo sotti gli occhi - è, secondo questi leggi, un fenomeno
necessario dello spirito «nella sua esplicazione».
In effetti, l'ottimismo d
De Sanctis sembrerebbe oggi essere messo duramente alla prova,
insieme all'idea stessa dell'avanzare della coscienza unitaria
nazionale. Che direbbe De Sanctis, oggi, del suo Sud? Della sua
Napoli? D'altra parte, tutto il meraviglioso romanzo della Storia
della letteratura italiana non è che un suggerimento, una
prefigurazione, un impulso verso un fine: «In questo momento che
scrivo le campane suonano a distesa, e annunciano l'entrata degli
italiani a Roma»: scrivere e agire, come ci dice questa pagina, sono
la stessa cosa e «tempi più umani e civili» (nel suono di quelle
campane) sono continuamente e infallibilmente davanti a noi.
L'ideale di De Sanctis
non è affatto, come pure si è argomentato, «una sorta di umanesimo
in cui l'arte abbia un ruolo subordinato», quanto un mondo in cui
l'opera d'arte stessa sia principio di umanità e rinnovato senso
morale.
Ancora oggi, tra i
formalisti e gli impressionisti più irriducibili, De Sanctis
conserva molti nemici giurati. Ma la letteratura non è tutto: non è
una religione, né un orizzonte al di là del quale cadremmo nel
nulla, né un Dio, né un unico fine.
Una letteratura priva di
un fine fuori di sé per De Sanctis non è che ozio o meglio, come
diceva lui: «inezie laboriose», buone per «cervelli oziosi e vaghi
di sciarade». Ogni grande letteratura, per essere tale, non soltanto
deve caricarsi dell'elettricità del mondo e delle cose vive, ma
anche determinare un progresso, una civiltà.
Lo diceva Gramsci con
ogni chiarezza: De Sanctis, come nessun altro, nel suo lavoro ha
unito il sogno di «un nuovo umanesimo, la critica del costume e
delle concezioni del mondo, e la critica estetica». La letteratura
che è essenzialmente libertà «serve» dunque a qualcosa: è a
servizio dell emancipazione e dell'unità dei popoli.
D'altra parte, lo Stato
laico emancipato dalla teocrazia e la libertà intellettuale o di
coscienza nel senso moderno sono mete raggiunte o raggiungibili solo
recentemente. Quando Machiavelli si batteva per la libertà, cioè
per la «partecipazione de' cittadini al governo», l'Italia, scrive
De Sanctis, era il popolo «meno serio del mondo». Vedere «l'ingegno
appiè della ricchezza» era un'immagine straziante. Ed ora questo
«basso», questo «peggio», questo «buffonesco» italiani «appiè
della ricchezza», se De Sanctis avesse ragione, non torneranno mai
più.
Ma invece? Non siamo noi
oggi nel punto stesso in cui De Sanctis ha lasciato il suo
Machiavelli? Che ne è dello spirito e del suo progredire? Dove sono
fuggite la coscienza unitaria nazionale e la letteratura che la
rispecchierebbe?
Tra i grandi interpreti
di De Sanctis, Gianfranco Contini a proposito della Storia
parlava d'una concezione teologica o «emanatistica» della
letteratura, in cui ogni testo si integra necessariamente nel
successivo, appartiene a una continuità evolutiva, come
necessariamente ogni uomo vivo appartiene e opera per il progresso di
tutta l'umanità.
Carlo Dionisotti
distingueva: da una parte la struttura unitaria del nostro Paese,
«che nell'età nostra era giunta a fare così trista prova di sé»,
dall'altra un capolavoro, la Storia di De Sanctis, che
«splendidamente rappresentava l’istanza unitaria del
Risorgimento».
Tanto Contini quanto
Dionisotti, ci dicono che l'immagine «imminente» dell'Italia è il
motore e l'effetto poetico generale presente in ogni pagina della
Storia. Tutt’ altro che desanctisiani «politicamente», e
non vedendo nessuna «continua realizzazione degli ideali umani»
nella storia dell umanità, entrambi ammirano la prosa inquieta del
professore napoletano: il «passo innanzi» che egli compie, solo,
con le sole sue forze, cioè la letteratura, le parole, verso il
nuovo e il meglio.
Ma infine: «il pubblico
abbandonando la letteratura, la letteratura è costretta a seguire il
pubblico», scrive De Sanctis a proposito del Metastasio: non è così
oggi? Non sono perdutamente gettati all'inseguimento del pubblico
romanzieri come Baricco, Tamaro, Umberto Eco (peraltro tecnicamente
imparagonabili al Metastasio)?
Ripensare a De Sanctis, oggi, significa innanzitutto chiudere la porta. Andarsene. Ammutolire. Non offrire valutazioni, classificazioni, distinzioni nel mercato generale delle lettere. E ricominciare da capo, cercare nei nascondigli, nei doppi fondi dei generi, nel pensiero fisso dell imminenza, dove, se De Sanctis ha ragione, la vera letteratura continua a farsi.
Ripensare a De Sanctis, oggi, significa innanzitutto chiudere la porta. Andarsene. Ammutolire. Non offrire valutazioni, classificazioni, distinzioni nel mercato generale delle lettere. E ricominciare da capo, cercare nei nascondigli, nei doppi fondi dei generi, nel pensiero fisso dell imminenza, dove, se De Sanctis ha ragione, la vera letteratura continua a farsi.
Tuttolibri La Stampa, 14 marzo 2009
Nessun commento:
Posta un commento