C’era
una volta il rame... materiale superbo, gran conduttore, che metteva
d’accordo quasi tutti: oggi c’è ancora, ma il prezzo lo rende
quasi inaccostabile. Per cotture rapide e medie lo sostituisce bene
l'alluminio pesante, mentre buoni risultati danno anche pentole e
casseruole di acciaio inossidabile col fondo di rame. Per cotture più
profonde, varie scuole si dividono il campo, ma io trovo che la
terracotta (coccio) abbia, a parità di prezzo, molte corde ai suo
arco. Bisogna usarla però con alcune avvertenze: tener separati gli
usi (carne, pesce, verdura), tanto il coccio non costa molto, evitare
assolutamente di far attaccare una volta (dopo, in quel punto,
continuerà ad attaccarsi), e soprattutto condizionarla, strofinando
l’esterno del fondo della pentola o tegame con spicchi d’aglio
(l’esterno,
attenzione) e lasciandola a riposare una notte piena d’acqua
fredda. Dopo, i risultati saranno eccellenti.
Tanto
è legata la terracotta alla nostra cucina regionale, al Nord come al
Sud, che molte preparazioni hanno tout court il nome del recipiente
di coccio in cui son fatte: come per esempio la squisita «tofeja»
canavesana, minestra (o meglio piatto unico di maiale e fagioli
stufata nel coccio. L’ho mangiata di recente in una versione
ingentilita ma nobile al vecchio San Giors di Torino, un albergo
ristorante di buona tradizione mercantile prospiciente il magnifico
mercato di Porta Palazzo. Posto dove si va per tajarin e bollito, il
San Giors, per agnolotti e arrosti, per i buoni barbera e nebbioli
della casa, e per il fascino malinconico del quartiere popolare
ottocentesco.
Tofeja.
Mettere a bagno per 12 ore 300 grammi di fagioli secchi (della melica
o anche borlotti); pulire 500 grammi di cotenne fresche di maiale e
tagliarle a rettangoli come una carta da gioco. Pulire due chili fra
musetto, orecchio, codino e puntine di maiale. Mettere su ogni
cotenna aglio e rosmarino tritato, sale e pepe, poi arrotolare e
legare a tubetto. Mettere nella pentola di coccio i fagioli, i rotoli
di cotenna, tutto il maiale, una cipolla, sedano e carota, aglio,
salvia, rametti di rosmarino, due foglie d’alloro, tre litri
d’acqua, sale, pepe, qualche chiodo di garofano, poca noce moscata.
Sigillare il coperchio con un impasto di farina e bianco d'uovo,
infornare a forno bassissimo per sette-otto ore, scuotendo di tanto in
tanto la pentola.
PANORAMA
- 9 NOVEMBRE 1981
Appendice.
La
piattella di Corteregio ovvero il fagiolo della meliga
La piattella se la
ricordano bene gli anziani di Cortereggio, il piccolo borgo del
canavese fondato dai Romani vicino al torrente Orco: nei terreni
profondi e ricchi di acqua questi fagioli bianchi, reniformi e
piuttosto piatti crescono meglio che altrove e, grazie alla bassa
concentrazione di calcio nel terreno, sviluppano una buccia molto
sottile.
Fin da bambini tutti gli
abitanti di Cortereggio si dedicavano alla semina e alla raccolta dei
fagioli nei campi di granoturco, una tradizione così radicata che le
piattelle erano diventate una importante risorsa economica per questo
paese. Ogni famiglia aveva i suoi clienti fissi che arrivavano da
tutto il canavese, i soldi guadagnati servivano per acquistare l’uva
nel Monferrato tanto che, a volte, le piattelle erano usate
direttamente come merce di scambio con l’uva. La pianta rampicante
sviluppa i caratteristici fiori bianchi e produce baccelli, anch’essi
schiacciati, che diventano gialli al momento della maturazione: da
luglio fino a settembre.
Tradizionalmente si
seminavano insieme al mais, così il fagiolo poteva avvitarsi attorno
al fusto robusto della meliga, che fa la parte quindi del tutore.
Alla raccolta si passava pazientemente tra i filari di mais cogliendo
i baccelli a mano uno per uno.
Ogni sabato nelle
famiglie del paese si cuocevano i fagioli in pignatte di terracotta
che venivano portate al forno del paese, usato in precedenza per la
cottura del pane e che donava il suo calore residuo alle pignatte, i
fagioli cotti in questo modo si usavano poi per insaporire altri
piatti durante tutta la settimana. Ogni famiglia aveva la propria
pignatta, fabbricata dagli artigiani del vicino paese di
Castellamonte, noto per la sua tradizione ceramista.
La ricetta prevede che,
insieme alle piattelle, si mettano nella pignatta le cotiche di
maiale speziate con sale e pepe, arrotolate e legate a formare le
quaiette e altre parti come lo zampino e il lardo, poi si aggiungono
la cipolla e altri aromi, si copre di acqua e si chiude. La cottura
nel forno al legna, rimasto tiepido dopo la cottura del pane, dura
circa 12 ore (la tradizione vuole almeno una notte intera).
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La
coltivazione della piattella era diffusa ancora fino agli anni '80,
conosciuta anche come piattella di San Giorgio Canavese, il comune
capoluogo, ma era nota in tutto il canavese come fasol at Cutres,
fagiolo di Cortereggio appunto.
Come
per molti altri legumi la sua coltivazione è stata progressivamente
abbandonata, data la difficoltà della coltivazione nel mais e della
raccolta, solo pochi abitanti hanno continuato a seminarla per
autoconsumo, continuando a riprodurre il seme in famiglia e
conservandolo fino ad oggi, in quantità minime, salvandolo così
dall'estinzione. Ma la fortuna della piattella si lega soprattutto ad
un agricoltore di Cortereggio, Mario Boggio, che decide già nel 1981
di consegnare alla banca del germoplasma dell'Università di Torino
pochi chilogrammi di fagioli per conservarne la semente. Oggi intorno
al lungimirante Mario si è costituito un Comitato per la tutela
della piattella canavesana di Cortereggio, formato da chi si è
impegnato a seminare nuovamente il fagiolo, dagli abitanti del
piccolo borgo e da amici e simpatizzanti che vogliono contribuire a
riportare sul mercato questo fagiolo.
Il
Presidio si propone di recuperare e promuovere questa tradizione,
coinvolgendo in futuro anche altri coltivatori locali e lavorando con
altri enti del territorio per riqualificare anche dal punto di vista
turistico ed enogastronomico questo grazioso angolo di canavese.
Area
di produzione
I
terreni della frazione Cortereggio nel comune di San Giorgio Canavese
(provincia di Torino)
dal
sito della Fondazione Slow Food
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