3.12.17

Tommaso Landolfi è morto. Ha giocato per perdere (Carlo Bo)

Chi era, com’era Tommaso Landolfi? Credo che nessuno dei suoi amici sia mai stato in grado di trovare una risposta soddisfacente. Forse chi gli è stato vicino nei primi anni e naturalmente il padre, la cugina, insomma le persone che ne hanno potuto seguire per intero l’evoluzione aveva qualche chiave utile, tutti gli altri si sono trovati coinvolti nella leggenda che egli stesso aveva provveduto a creare e ad alimentare con un particolare rigore. Anch’io che l’ho conosciuto in anni lontanissimi — per lo meno una cinquantina — non saprei che cosa immaginare e dire. Fra i giovani che frequentavano le vecchie Stalle del Granduca trasformate in aule della Facoltà di lettere a Firenze, Landolfi faceva storia a sé, non si sapeva bene di dove fosse, di dove venisse, non indugiava mai sui suoi propositi per il futuro: capivamo soltanto che era il più dotato di tutti, un fuori classe eccezionale, e le volte che si adattava a competere con gli altri (Poggioli, Traverso...), la sua vittoria era fin troppo facile. Ma non era la letteratura che in fondo lo interessava o che privilegiava, non ricordo di averlo visto con un libro in mano; eppure sapeva sempre tutto ed era bravissimo nel mettere in difficoltà gli altri con lunghe citazioni, con sottili agudezas filologiche.
La leggenda cominciava subito dopo, quando Landolfi scompariva per periodi più o meno lunghi e non si conosceva la ragione di queste improvvise vacanze. Una parte del mistero cadde quando un giorno lo vedemmo ritornare in compagnia del padre, un delizioso gentiluomo meridionale. Sarebbe stata la prima delle apparizioni pubbliche del Landolfi familiare: il padre era venuto a pagare i debiti di gioco del figlio.
Il gioco è stato infatti per tutta la sua vita la più probabile delle interpretazioni di Landolfi che divideva il suo tempo in due momenti ben distinti: il Landolfi che va a casa con gli amici del caffè e il Landolfi che di notte raggiungeva misteriose compagnie di giocatori segreti. C’è tutto un libro da scrivere sul Landolfi notturno e di cui conosciamo soltanto alcuni episodi memorabili desolati. Dal primo, quando partito per Praga, fece una sosta d’obbligo ma disastrosa al casinò di Venezia; all’ultimo che è però durato molti anni, quando aveva scelto come residenza San Remo e poi, con un leggero strappo, Taggia.
Dentro possiamo metterci l’aneddotica fiorentina già sapientemente illustrata da Carlo Emilio Gadda in una lettera al cugino Piero, le partite organizzate da due barbieri in bische volanti e che avevano per protagonisti Rosai, Gatto, Pratolini, Piero Santi e tutti quanti. Dopo mezzanotte vi faceva la sua apparizione Landolfi e la faceva da grande attore nella più severa tradizione ottocentesca con l’annuncio baritonale del «bando». E poi quelle più nobili, che si tenevano in stanze d’albergo, quanto per esempio passava Bontempelli.
Tanta era la sua convinzione, la sua religione del gioco era così forte, che Landolfi misurava i suoi giudizi letterari a quel metro. Così, quando scoprì che Tecchi andava anche lui a San Remo, modificò ogni giudizio precedente proclamandolo grande scrittore: senza questo dato da gioco non si capisce né l’uomo né lo scrittore.
Landolfi è stato in assoluto ma anche in astratto il maggiore scrittore italiano del secolo: aveva il necessario per prendere l’eredità di D’Annunzio e in questo senso le prove abbondano; purtroppo gli è mancata la regola del lavoro, ciò che proprio D’Annunzio chiamava lo sgobbo, epperò anche i suoi libri migliori, dal Dialogo dei massimi sistemi ai Diari della maturità, danno sempre l’impressione dell’occasionale e del provvisorio.
Ma è proprio qui che registriamo una straordinaria coincidenza fra l’uomo e lo scrittore: l’uomo aveva deciso subito di non vivere, di non seguire cioè alcun sistema borghese, lo scrittore si è sempre guardato bene dal diventare un professionista. Il motivo? Per Landolfi tutto era perduto in partenza, la sua realtà era o gli appariva del tutto insufficiente e inadeguata: tutti quei fiori stupendi che la natura gli aveva messo in mano, morivano subito e si trasformavano in simboli del nulla. Il gioco era una rivalsa e più probabilmente un bisogno di conferma.
Landolfi giocava per perdere, per sentirsi ripetere ancora una volta ma da un amico invisibile un no definitivo. Si ricordano infatti le sue perdite ad eccezione di un rapidissimo momento di fortuna a Firenze subito dopo l’ultima guerra. Certi tipi beffardi avevano aperto sui Lungarni in una villa, un circolo di cultura e chiamato l’illustre professore Luigi Russo, a inaugurarlo con una conferenza sul Machiavelli. Non era ancora finita la conferenza, che il pubblico, nella sua quasi totalità, era passato nelle sale da gioco; e fra questi il Landolfi che vinse una somma allora strepitosa: qualcosa come 7 milioni, con i quali si rifece il guardaroba e acquistò una potentissima motocicletta.
Fu naturalmente una vittoria di pochi giorni, dopo di che passò a perdere con una regolarità che nulla al mondo avrebbe potuto sconfessare.
Era ciò che in fondo voleva Landolfi; sentirsi dire che non c’era nulla da fare e che anche lo strumento prezioso che gli era stato offerto dalla natura, la letteratura, era appena un inganno. Non fece che ripeterlo in prosa, in versi, sempre cercando di rendere la sua voce più disperata e crudele. È stata questa la sua vera scommessa, aiutare il destino a rendere più verosimile la sua leggenda di tempi disperati, di romantico fuori tempo, geloso padrone delle proprie sconfitte. Ma detto questo, resta la parte più importante del discorso vero: quello del grande scrittore che è stato Landolfi, nono-stante tutto, nonostante se stesso.


“L'Europeo”, 26 luglio 1979

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