Chi era, com’era
Tommaso Landolfi? Credo che nessuno dei suoi amici sia mai stato in
grado di trovare una risposta soddisfacente. Forse chi gli è stato
vicino nei primi anni e naturalmente il padre, la cugina, insomma le
persone che ne hanno potuto seguire per intero l’evoluzione aveva
qualche chiave utile, tutti gli altri si sono trovati coinvolti nella
leggenda che egli stesso aveva provveduto a creare e ad alimentare
con un particolare rigore. Anch’io che l’ho conosciuto in anni
lontanissimi — per lo meno una cinquantina — non saprei che cosa
immaginare e dire. Fra i giovani che frequentavano le vecchie Stalle
del Granduca trasformate in aule della Facoltà di lettere a Firenze,
Landolfi faceva storia a sé, non si sapeva bene di dove fosse, di
dove venisse, non indugiava mai sui suoi propositi per il futuro:
capivamo soltanto che era il più dotato di tutti, un fuori classe
eccezionale, e le volte che si adattava a competere con gli altri
(Poggioli, Traverso...), la sua vittoria era fin troppo facile. Ma
non era la letteratura che in fondo lo interessava o che
privilegiava, non ricordo di averlo visto con un libro in mano;
eppure sapeva sempre tutto ed era bravissimo nel mettere in
difficoltà gli altri con lunghe citazioni, con sottili agudezas
filologiche.
La leggenda cominciava
subito dopo, quando Landolfi scompariva per periodi più o meno
lunghi e non si conosceva la ragione di queste improvvise vacanze.
Una parte del mistero cadde quando un giorno lo vedemmo ritornare in
compagnia del padre, un delizioso gentiluomo meridionale. Sarebbe
stata la prima delle apparizioni pubbliche del Landolfi familiare: il
padre era venuto a pagare i debiti di gioco del figlio.
Il gioco è stato infatti
per tutta la sua vita la più probabile delle interpretazioni di
Landolfi che divideva il suo tempo in due momenti ben distinti: il
Landolfi che va a casa con gli amici del caffè e il Landolfi che di
notte raggiungeva misteriose compagnie di giocatori segreti. C’è
tutto un libro da scrivere sul Landolfi notturno e di cui conosciamo
soltanto alcuni episodi memorabili desolati. Dal primo, quando
partito per Praga, fece una sosta d’obbligo ma disastrosa al casinò
di Venezia; all’ultimo che è però durato molti anni, quando aveva
scelto come residenza San Remo e poi, con un leggero strappo, Taggia.
Dentro possiamo metterci
l’aneddotica fiorentina già sapientemente illustrata da Carlo
Emilio Gadda in una lettera al cugino Piero, le partite organizzate
da due barbieri in bische volanti e che avevano per protagonisti
Rosai, Gatto, Pratolini, Piero Santi e tutti quanti. Dopo mezzanotte
vi faceva la sua apparizione Landolfi e la faceva da grande attore
nella più severa tradizione ottocentesca con l’annuncio baritonale
del «bando». E poi quelle più nobili, che si tenevano in stanze
d’albergo, quanto per esempio passava Bontempelli.
Tanta era la sua
convinzione, la sua religione del gioco era così forte, che Landolfi
misurava i suoi giudizi letterari a quel metro. Così, quando scoprì
che Tecchi andava anche lui a San Remo, modificò ogni giudizio
precedente proclamandolo grande scrittore: senza questo dato da gioco
non si capisce né l’uomo né lo scrittore.
Landolfi è stato in
assoluto ma anche in astratto il maggiore scrittore italiano del
secolo: aveva il necessario per prendere l’eredità di D’Annunzio
e in questo senso le prove abbondano; purtroppo gli è mancata la
regola del lavoro, ciò che proprio D’Annunzio chiamava lo sgobbo,
epperò anche i suoi libri migliori, dal Dialogo dei massimi
sistemi ai Diari della maturità, danno sempre
l’impressione dell’occasionale e del provvisorio.
Ma è proprio qui che
registriamo una straordinaria coincidenza fra l’uomo e lo
scrittore: l’uomo aveva deciso subito di non vivere, di non seguire
cioè alcun sistema borghese, lo scrittore si è sempre guardato bene
dal diventare un professionista. Il motivo? Per Landolfi tutto era
perduto in partenza, la sua realtà era o gli appariva del tutto
insufficiente e inadeguata: tutti quei fiori stupendi che la natura
gli aveva messo in mano, morivano subito e si trasformavano in
simboli del nulla. Il gioco era una rivalsa e più probabilmente un
bisogno di conferma.
Landolfi giocava per
perdere, per sentirsi ripetere ancora una volta ma da un amico
invisibile un no definitivo. Si ricordano infatti le sue perdite ad
eccezione di un rapidissimo momento di fortuna a Firenze subito dopo
l’ultima guerra. Certi tipi beffardi avevano aperto sui Lungarni in
una villa, un circolo di cultura e chiamato l’illustre professore
Luigi Russo, a inaugurarlo con una conferenza sul Machiavelli. Non
era ancora finita la conferenza, che il pubblico, nella sua quasi
totalità, era passato nelle sale da gioco; e fra questi il Landolfi
che vinse una somma allora strepitosa: qualcosa come 7 milioni, con i
quali si rifece il guardaroba e acquistò una potentissima
motocicletta.
Fu naturalmente una
vittoria di pochi giorni, dopo di che passò a perdere con una
regolarità che nulla al mondo avrebbe potuto sconfessare.
Era ciò che in fondo
voleva Landolfi; sentirsi dire che non c’era nulla da fare e che
anche lo strumento prezioso che gli era stato offerto dalla natura,
la letteratura, era appena un inganno. Non fece che ripeterlo in
prosa, in versi, sempre cercando di rendere la sua voce più
disperata e crudele. È stata questa la sua vera scommessa, aiutare
il destino a rendere più verosimile la sua leggenda di tempi
disperati, di romantico fuori tempo, geloso padrone delle proprie
sconfitte. Ma detto questo, resta la parte più importante del
discorso vero: quello del grande scrittore che è stato Landolfi,
nono-stante tutto, nonostante se stesso.
“L'Europeo”, 26
luglio 1979
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