Alfredo Reichlin. Foto di Andrea sabbadini |
Il compagno Alfredo
Reichlin ci ha lasciato: è una seria perdita. E quando scrivo
“compagno” ricordo l’epoca del protagonismo politico e
culturale del Pci. Alfredo ne è stato uno dei migliori interpreti:
uno straordinario compagno.
La sua vita è stata
molto intrecciata a quella dei compagni che hanno fatto questo
giornale. Innanzitutto a quella di Luigi Pintor. Erano compagni di
banco, al liceo Tasso, ed è proprio grazie a Giaime che ambedue
hanno preso la strada che poi li ha portati al Pci.
Finirono la scuola nel 43
ma nel grande edificio di via Sicilia tornarono assieme, armati di
pistola, già universitari, per la loro prima azione temeraria:
entrarono nella stanza del preside fascista, Amante, minacciandolo di
rappresaglia se non avesse consentito lo sciopero degli studenti
convocato per protestare per l’uccisione di Massimo Gizzio,
studente antifascista in un altro liceo della capitale. Poi
riuscirono a prendere contatto col Pci e furono arruolati,
diciannovenni, nei Gap romani.
È sempre con Luigi che
alla Liberazione decidono di fare il passo dell’iscrizione al Pci.
«Eravamo comunisti?» –
si è chiesto Alfredo nel bel libro scritto qualche anno fa (Il
midollo del leone, Laterza 2010). Lo siamo diventati dopo. E
tuttavia se si vuole capire qualcosa della storia d’Italia e del
perché il ruolo del Pci è stato così grande, tanti discorsi sul
mito sovietico e sullo stalinismo servono ma fino a un certo punto.
Non spiegano perché una
generazione che dell’Urss non sapeva nulla (noi compresi) si
gettava nella lotta. Non era Stalin ma la patria che ci chiamava. Può
sembrare retorico, ma è la pura verità.
«Io non so se questo
sentimento nazionale sarebbe scattato senza l’appello all’unità
nazionale che ci arrivò da Napoli, dal capo dei comunisti, un certo
Ercoli. Dario Puccini, fratello del futuro regista Gianni, ci riunì
a casa sua per spiegarci che l’obiettivo di questo Ercoli era la
’democrazia progressiva’.’Progressista’, cercai di
correggerlo. No, ’progressiva’, mi rispose irritato, e mi spiegò
il significato fondamentale di questa parola che alludeva a un
processo in atto: a come, in certe condizioni, la democrazia poteva
trasformarsi in socialismo. 'Non ci sono barriere cinesi tra la
democrazia portata fino in fondo e il socialismo'. Lo aveva detto
nientemeno che Lenin».
Fu di nuovo assieme a
Luigi che Alfredo approdò, già nel 1945, alla redazione dell’Unità.
Togliatti, con grande
coraggio, aveva capito che se voleva costruire un grande partito
popolare doveva rendere protagonisti i giovani cresciuti nel paese
durante il fascismo, non gli anziani, pur gloriosi compagni, tornati
dall’esilio o usciti dalle carceri.
Di quel giornale – in
cui io, più giovane di sei anni, entrai come correttore di bozze
appena sbarcato dalla Libia – Alfredo divenne direttore, poco più
che trentenne, succedendo a Pietro Ingrao. Ed è per “ingraismo”
che ne fu allontanato nel ‘ 62 e spedito in Puglia dove era nato,
ma non aveva mai vissuto (mentre Luigi per le stesse ragioni veniva
spedito in Sardegna).
Segretario del partito in
quella regione allora tutta bracciantile lo seguii poco dopo, perché
anche io fui mandato «a conoscere l’Italia», e fui per alcuni
anni il suo vice. Fu una straordinaria esperienza. Reichlin, sempre
in quel libro in cui dà conto della sua vita, racconta il primo
impatto con la Puglia, quando parla della felicità: l’immensa
felicità della politica che si fa popolo, che riscrive la storia.
«La profonda emozione di
riscoprire gli italiani, il paese vero: le borgate, le fabbriche, i
braccianti. Ricordo quando arrivai a Bari da Roma una sera tanto
tempo fa (erano i primi anni ’60) per assumere la direzione dei
comunisti pugliesi. Non conoscevo nessuno. Cenai in una squallida
trattoria con Tommaso Sicolo, il mio vice, un operaio di Giovinazzo
di straordinaria intelligenza. Stazza 110 chili. Non avevo mai visto
mangiare un piatto così grande di pastasciutta. Mi comunicò che il
giorno dopo dovevo fare un comizio a Corato. Era la prima volta che
parlavo in piazza. Non so quello che dissi. Ricordo solo una piazza
immensa e un mare di coppole. Gli zappatori. In Puglia incontrai una
umanità: i compagni. Mi trovai immerso nella vita di un partito che
era anche una straordinaria comunità umana».
Quando io arrivai in
Puglia Alfredo era riuscito ad aprire l’organizzazione anche a
qualche giovane che bracciante non era. Stava crescendo un gruppo di
intellettuali – Franco De Felice, Mario Santostasi, Giancarlo
Aresta, Beppe Vacca, Felice Laudadio – formatisi fra l’università
e la casa Editrice Laterza.
Vito Laterza, che ne era
il direttore, divenne nostro amico e ci offrì la vecchia villa dove
d’estate alloggiava Benedetto Croce, autore fondamentale della casa
editrice. Lì andammo a vivere con Alfredo, l’abitazione era
bellissima ma ormai a pezzi, in attesa di essere demolita, gelida
d’inverno. Lì si svolsero discussioni infinite sulla questione
meridionale, di cosa voleva dire – non in astratto, ma a partire da
quel contesto concreto – una rivoluzione in occidente che non fosse
una semplice variante del riformismo socialdemocratico né del
marxismo-leninismo di tipo sovietico.
Fu una bellissima
stagione.
Anche dopo – per tutti
gli anni ’60 – continuammo a incontrarci molto: a Roma, a
dirigere la commissione culturale, era venuta Rossana, molto amica di
Alfredo, e sebbene non sia mai diventata una corrente, visse in
quegli anni pre-’68 un’area ingraiana che la pensava in modo
analogo. Così come Ingrao anche Alfredo non ci seguì nell’avventura
de “Il Manifesto”.
Le nostre strade
politiche si separarono, non i rapporti umani, sebbene per un po’
di anni, i primi, le relazioni fra chi come Alfredo e Ingrao faceva
parte del vertice del partito e chi come noi ne era stato radiato,
furono anche tesi.
Alfredo accettò la
scelta della maggioranza del Pci anche quando si arrivò allo
scioglimento del partito nel gennaio ’91 e poi le successive
trasformazioni in Pds, Ds, Pd.
Una rottura gli è sempre
sembrata un arbitrio, quasi un atto di superbia. Fino all’ultimo ha
continuato a riferirsi a quel che era restato come “il Partito”.
Non riusciva nemmeno a immaginarsene un altro. Ma alla fine non ha
più retto e ha scelto anche lui la strada del dissenso aperto:
votando No al referendum e scrivendo, solo pochi giorni prima di
morire, a commento del Lingotto, un feroce articolo contro il
renzismo.
Le ultime pagine de Il
Midollo del leone sono dedicate ai fratelli Pintor.
Si parte dalla foto della
loro classe di liceo e Alfredo torna a guardare quei volti di loro
ragazzi. «Sopratutto – scrive - il volto di Luigi, il mio compagno
di banco e fratello di Giaime, insieme al quale scoprivo i libri,
facevo i grandi pensieri, e poi combattei fianco a fianco tra i
partigiani, e poi ancora ci ritrovammo nella redazione dell’Unità.
Era un ragazzo davvero straordinario e ne parlo perché vorrei che lo
avessero conosciuto i tanti simili a lui, che certamente esistono e
che ormai devono decidersi a prendere la parola. Luigi era il nostro
capo… Passò solo un anno ed egli venne a casa da me in quella sera
tristissima del dicembre 1943 per dirmi che Giaime era morto,
dilaniato da una mina mentre attraversava la linea sui monti
dell’Alto Volturno. Noi avevamo 18 anni, Giaime 4 o 5 di più. E
Giaime resta per me il simbolo di una generazione».
Rispetto agli
intellettuali antifascisti delle generazioni precedenti, questa non
si è fatta affascinare dall’intimismo, ha «lasciato ai vecchi
intellettuali delusi la confusione dei loro propositi. L’ultima
generazione non ha avuto tempo di costruirsi il dramma interiore: ha
trovato un dramma esteriore perfettamente costruito».
E poi ricorda le parole
di Calvino su Giaime: «L’esempio di Pintor, una delle tempre umane
più estranee al decadentismo che pure veniva da un’educazione
letteraria che era quella del decadentismo europeo, ci testimonia
come in ogni poesia vera esiste un midollo di leone, un nutrimento
per una morale rigorosa, per una padronanza della storia».
Il suo libro, Alfredo lo
conclude con queste parole: «Di questo ’midollo del leone’ c’è
un gran bisogno. Se Vittorio Foa fosse ancora vivo e mi rivolgesse di
nuovo quella domanda – credevate nella rivoluzione? – io
risponderei con questi pensieri».
“il manifesto”, 23
marzo 2017
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