“Sono sei mesi che Santorre di Santa
Rosa s'è fatto uccidere a Navarine; non è passato un anno da quando
Lord Byron è morto cercando di servire la Grecia. Dov'è
l'industriale che ha sacrificato la sua fortuna a questa nobile
causa? La classe pensante ha iscritto quest'anno Santa Rosa e Lord
Byron tra i nomi destinati a divenire immortali. Ecco
un soldato, ecco un grande signore; nel frattempo che cosa hanno
fatto gli industriali?”.
Con questa domanda si chiude un breve
saggio di Stendhal dall'ironico titolo D'un nouveau complot contre
les industriels pubblicato nel 1825 (ed ora tradotto per la prima
volta in italiano da Sellerio editore, a cura di Marco Dani). È uno
Stendhal inedito anche per altre ragioni: non ultima che la sua voce
si aggiunge a quella di moltissimi scrittori, poeti, artisti europei
che nel primo Ottocento, di fronte alla incalzante
industrializzazione dei maggiori paesi dell'Europa occidentale,
all'arricchitevi di una borghesia avida e speculatrice,
all'inquinamento e al degrado civile di città e di periferie
industrializzate, reagirono con inquietudine e rabbia. Poiché il
curatore della edizione italiana del saggio stendhaliano non lo fa,
suggerisco al lettore di dimenticare quello che ha letto a scuola
sulle sorti magnifiche e progressive della rivoluzione industriale.
Nei primi decenni dell'Ottocento non a tutti fu chiaro che
l'equazione libertà politiche-libertà economica celava una realtà
più problematica di quanto si pensasse, e che il capitalismo, in
tutte le sue manifestazioni (dalle fabbriche alle banche), rivelava
aspetti sempre più violenti e disarticolanti. Non a tutti, dicevo;
ma a qualcuno sì, e proprio ai più colti e sensibili
osservatori.Tra questi, appunto, Stendhal: il cui pamphlet, oltre ad
essere una protesta nei confronti della mitizzazione
dell'industrialismo (in particolare l' autore della Certosa di Parma
polemizzava con lo scritto di Saint-Simon Il sistema industriale,
del 1821), smascherava l'equivoco ideologico sotteso al paragone tra
le due libertà; un paragone ancora oggi inattaccabile.
Ecco allora l'ironia tagliente di
queste pagine: “Gli industriali fanno uso della loro libertà come
cittadini francesi; impiegano i loro fondi come vogliono: alla
buon'ora; ma perché venire a domandare la mia ammirazione (il
corsivo è di Stendhal) e, colmo del ridicolo, chiedermela in nome
del mio amore per la libertà?”. Giudichi il lettore se la
perplessità di Stendhal possa avere qualche risonanza nel tempo che
stiamo vivendo; e intanto, ancora un altro a fondo:
“L'industrialismo, un po' parente del ciarlatanismo, paga i
giornali e prende in mano, senza esserne richiesto, la causa
dell'industria: in più si permette un piccolo errore di logica:
proclama che l'industria è la causa di tutta (il corsivo è di
Stendhal) la fortuna di cui gode la giovane e bella America”.
Fermiamoci un momento qui per un breve
commento. È chiaro che l' industrialismo di cui parla Stendhal è
quell'apparato ideologico, giornalistico, politico che intorno alla
rivoluzione industriale ha costruito, con i mezzi di informazione
allora possibili, una sorta di castello incantato esaltandone solo i
vantaggi e le commodities (cioè i prodotti e i beni che industria e
capitali mettevano a disposizione di un certo numero di persone) e
ignorando volutamente i contraccolpi, le ricadute negative e i
boomerang sociali e culturali che essa ha prodotto. Ma il riferimento
all' America fa venire in mente la riflessione che qualche anno dopo
faceva un altro illustre francese, non meno di Henri Beyle
osservatore acuto del suo tempo: Alexis de Tocqueville. Ebbene, nella
prefazione alla seconda edizione (1840) de La Democrazia in
America, Tocqueville annotava: “Man mano che la massa della
nazione si volge alla democrazia, la classe particolare che si occupa
dell'industria diviene più aristocratica. Io penso che nel suo
complesso l'aristocrazia industriale sia una delle più dure che mai
siano apparse sulla terra. Proprio verso questa parte gli amici della
democrazia devono continuamente rivolgere lo sguardo e diffidare...”.
Ad evitare di venir preso per (come dicono oggi alcuni intellettuali
industrialisti) un critico romantico della rivoluzione industriale e
quindi per un conservatore, Tocqueville precisava: “Appunto perché
non sono un avversario della democrazia, ho voluto essere sincero con
essa”. E proprio nei confronti del problema specificamente
politico, cioè la relazione libertà-democrazia-industrializzazione,
non mi pare che Stendhal e Tocqueville fossero degli sprovveduti.
Anzi, dalla loro visione liberale viene una lezione attuale che
potrebbe essere letta così: nessun modello politico di libertà è
concretamente realizzabile senza una contestuale critica delle forme
istituzionali e specifiche della società continuamente modellata (e
alterata) dalla rivoluzione industriale. E ancora: i meccanismi
politici della democrazia non si modificano né migliorano
automaticamente; e non si comprende perché solo a quelli economici
debbano essere garantiti l'automatismo e l'autonomia della propria
riproduzione e della propria (quando c'è) regolamentazione.
Al tempo di Stendhal
l'industrializzazione era ritenuta dalla borghesia una conquista
della libertà, ma appariva inspiegabile, soprattutto a un uomo di
cultura, il fatto che l'evoluzione del capitalismo industriale e
finanziario avesse creato intorno a sé un clima nebuloso e
impenetrabile dove gli individui, i cittadini, i lavoratori si
muovevano (o erano mossi) come oggetti incantati, passivi e storditi.
Era una impressione, questa, che ebbe ad esempio Ugo Foscolo
visitando, nel 1822, le città industriali di Manchester e di
Liverpool. “...I vostri figli - scriveva ad una amica - o al più
tardi i vostri nipoti si accorgeranno che la vera rivoluzione sarà
qui tacitamente prodotta da un lato dalla disperata miseria
della moltitudine, e dall'altro dalla potenza economica dei plebei
arricchiti. E, guardando allo sfacelo di Manchester, e anticipando
Tocqueville, aggiungeva che ne era responsabile la più terribile
delle tirannidi, quella degli Oligarchi padroni delle manifatture che
non hanno altra idea, altro sentimento che quello di fare
fortuna...”.
Ho sottolineato l'avverbio tacitamente,
usato da Foscolo, perché questa parola dà l'immagine viva del
dominio silenzioso, sempre più esteso, che l'industrializzazione si
è assicurato e di fronte al quale si era (e si è) disarmati e
storditi. Ma non per i motivi addotti di recente da Alberto Moravia
cioè per la nostra immaturità di fronte all'esperienza ancora
relativamente recente della rivoluzione industriale bensì per la
ragione opposta: la nostra maturità (alla quale hanno contribuito
anche le poesie di Foscolo, i romanzi di Stendhal, il pensiero di
Tocqueville) è troppo alta e raffinata per reagire alla elementarità
brutale di una rivoluzione industriale che è arrivata a perforare le
fasce di ozono dell'atmosfera. Al contrario di quel che ritiene
Moravia, non è dunque contraddittorio volere il benessere e averne
paura. Ma, per finire: “Perché - si chiedeva Stendhal - dovrei
ammirare gli industriali più del medico, dell'avvocato,
dell'architetto?”. Oppure, perché, ci chiediamo noi, pensando a
Lord Byron e alla sua morte si sorride come di un poeta eroicamente
inutile, e lontano, mentre un suo contemporaneo anonimo padrone di
manifatture lo si considera, con gratitudine, tra i moderni fondatori
della civiltà di oggi?
la Repubblica, 2 marzo 1989
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