Il lungo cammino è
il titolo che Girolamo Li Causi,
il più prestigioso dirigente dei comunisti in Sicilia negli anni del
secondo dopoguerra, scelse per la prima parte della sua
autobiografia, l'unica portata a termine, che si apre nel 1906 e si
ferma al 1944, data del suo avventuroso ritorno in Sicilia, dopo aver
partecipato alle prime fasi della guerra partigiana nell'Italia
occupata dai tedeschi. Il brano che qui riprendo riguarda il tempo
degli studi universitari, nell'ateneo di Ca' Foscari a Venezia, ove
c'era una facoltà di economia politica aperta ai diplomati in
ragionieria. Quando giunse a Venezia, nel settembre del 1913 il
giovane Li Causi non aveva ancora 18, ma si iscrisse subito alla
sezione socialista, benissimo accolto dai compagni veneziani. Non
accadde lo stesso all'Università. (S.L.L.)
Non mi fu difficile
rintracciare la sezione socialista, in Malcanton, dove c’era anche
la sede della Camera del lavoro. Ogni lega aveva il suo ufficio, il
suo sgabuzzino, e mi colpi il fatto che la vita sindacale si
svolgesse, nei giorni feriali, di sera; il segretario della lega, al
termine del proprio lavoro normale, passava quotidianamente due o tre
ore nell’ufficio della lega, dove riceveva gli iscritti, dava
spiegazioni, raccoglieva le quote e tutto questo lo faceva
gratuitamente. La Camera del lavoro era animatissima; in tempi
ordinari le assemblee si facevano sempre la domenica mattina e in
quelle occasioni i saloni si riempivano. Anzi, le varie leghe
dovevano fare attenzione a prenotare in tempo la sala e a rispettare
gli orari, per non intralciarsi reciprocamente nell'attività.
Fu in quell’ottobre
1913 che mi iscrissi al partito socialista. Non fu una decisione a
freddo, la mia. C’era stata la partecipazione alla campagna
elettorale in Sicilia e poi il clima politico trovato a Venezia con
la vittoria del candidato socialista, il fervore che questo
avvenimento aveva creato, le convinzioni che nel corso degli anni
precedenti erano andate lentamente maturando; tutto questo fece sì
che, fin dalle prime settimane della mia residenza a Venezia, mi
trovassi a partecipare assiduamente alla vita del partito. Fui notato
per la mia vivacità e venni subito utilizzato sia dalla sezione
cittadina che dalla federazione per tenere comizi nei vari sestieri,
specialmente in occasione di scioperi di categoria. Dato il mio
temperamento focoso, la funzione che mi era riservata era quella del
«surriscaldatore», del suscitatore di entusiasmi: servivo cioè a
mantenere alta la pressione, la carica.
Andavo anche in
provincia, per « sfondare » nelle località a noi più ostili. Ad
esempio non ci era praticamente possibile entrare a Burano, il regno
di Jesurum, che sfruttava migliaia di ragazzi, figli di pescatori
poveri, nella fabbricazione dei famosi merletti. Come ci accingevamo
a scendere dal vaporetto, erano aggressioni a bastonate, a sassate.
Ci volle molto tempo prima che potessimo parlare a Burano.
In campagna si andava
quasi sempre la domenica. Ci si piazzava, di mattina, dinanzi alle
chiese ad aspettare che finisse la messa, poi, mentre la gente
defluiva lentamente, improvvisavamo il nostro comizio, sperando che
qualcuno si fermasse a sentirlo o almeno cogliesse a volo qualche
frase, qualche parola. Naturalmente non dappertutto la situazione era
così nera. C’erano già delle zone in cui ci eravamo fortemente
affermati e che ancor oggi costituiscono dei veri baluardi
progressisti...
[...]
Il mio ingresso a Ca’
Foscari fu contrassegnato da un episodio molto spiacevole. Io
ignoravo completamente gli usi e i costumi delle università, nulla
sapevo delle soverchierie imposte alle matricole. Non avevo ancora
posto piede nell’ampio atrio dell’istituto quando uno studente mi
investì prepotentemente:
— Vieni qua, fetente
matricola!
— Cosa hai detto? —
feci io incredulo, convinto di aver capito male.
— Fetente matricola...
Se non me lo levavano
dalle mani lo ammazzavo. Un finimondo. A un certo punto mi sentii
interpellare da un siciliano di Pantelleria:
— Ma che stai facendo?
Rincuorato di trovare un
compaesano mi sfogai:
— Ma non vedi questa
carogna che io non ho mai visto e che mi dà del fetente!
— Calma, calma; bada
che c’è un equivoco!
— Ma che equivoco! Se
ti dico che mi ha dato del fetente e per due volte anche!
E quello allora a
spiegarmi che si trattava non di una ingiuria ma di una usanza
consacrata dai secoli nel rito della immatricolazione. Vi lascio
immaginare la mia mortificazione! Nonostante mi affrettassi a
chiedere scusa, quella reazione di tipo assolutamente nuovo in
quell’ambiente e il fatto che ero siciliano crearono attorno a me,
nella scuola, il vuoto assoluto. Intimoriti e diffidenti gli studenti
dicevano: «E meno male che non ha tirato fuori il coltello!» E io a
dire: «Ma che coltello...». Naturalmente, inseguito, quando mi
conobbero meglio, riuscii ad ottenere un po di fiducia, ma intanto
ero partito con il piede sbagliato. Il compagno Ernesto Cesare
Longobardi, professore di lingua e letteratura inglese, mi fu di
aiuto prezioso per superare questa nomea di violento e di sanguinario
che m’ero fatta.
Il lungo cammino,
Editori Riuniti, 1974
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