Era trascorso più di un
anno, da quei 55 giorni che nel 1978 sconvolsero l’Italia. «Con
Franco decidemmo di fare un film sul sequestro di Aldo Moro».
Costa-Gavras, 82 anni, parla nella sua casa parigina, dietro il
Panthéon. Franco era Solinas, uno dei suoi sceneggiatori preferiti.
Con lui nel ’72 aveva scritto L’Amerikano, ambientato
nell’Uruguay dei tupamaros. Ora sarebbe stata la volta dei
nostri anni di piombo.
Costa-Gavras e Solinas
iniziarono con entusiasmo. Costantino (il vero nome del regista)
aveva scoperto lo sceneggiatore per il suo lavoro con Gillo
Pontecorvo su La battaglia di Algeri. L’Amerikano
l’avevano scritto a Fregene, dove Solinas aveva una casa. Per
ricostruire la vicenda Moro, il regista riprese a bazzicare Roma. «Ci
mettemmo in contatto con Eugenio Scalfari, disse che ci avrebbe
aiutato. E anche la famiglia Moro mi fece sapere che avrebbe
collaborato». Le ricerche continuarono a Parigi. «Mi chiamò una
donna tedesca, propose un incontro in un albergo di buon’ora.
Arrivò con tre italiani: erano legati alle Brigate rosse, rifugiati
a Parigi. Si presentarono con nomi fittizi. Parlammo a lungo, ma sui
punti importanti restarono sul vago». Alla fine si strinsero la
mano. «Non li ho più visti».
Il regista prosegue:
«Cercavo, ma continuavo a non capire come fosse finita la vicenda di
Moro. Così, dopo mesi di lavoro, abbandonammo». Eppure, continua
Costa-Gavras, «il personaggio mi affascinava. Lo ammiravo,
soprattutto per il suo concetto delle convergenze parallele».
Un’espressione che forse Moro non pronunciò mai e che
probabilmente risale alla fine degli anni Cinquanta, all’anticamera
del centro-sinistra con i socialisti. «Non importa», sottolinea il
regista, «sintetizza il suo approccio alla politica, che portò al
progetto del compromesso storico. Era l’aspirazione a formare una
maggioranza con l’opposizione, consapevole che le guerre civili tra
i partiti non portavano a nulla».
Per Costa-Gavras, «Moro
fu un visionario. Basta vedere quanto succede oggi in Francia con
Marine Le Pen. Alle ultime regionali, certi candidati di destra hanno
aperto alla sinistra per impedire che vincessero quelli del Front
National. E gli elettori di sinistra hanno optato per una convergenza
parallela».
A Moro il regista
guardava senza pregiudizi ideologici. Come sempre, del resto. Nel ’69
era uscito Z-L’orgia del potere, sulla Grecia dei
colonnelli, e l’anno successivo arrivò La confessione: nel
mirino stavolta c’era un regime comunista, quello della
Cecoslovacchia. Un uomo di sinistra («ma mai comunista»),
Costa-Gavras, e soprattutto uno spirito libero: «Non mi sono mai
fatto reclutare da nessuno».
Ora che un’ennesima
commissione parlamentare d’inchiesta è al lavoro sul caso Moro, il
regista greco naturalizzato francese spera che «si arrivi a
decifrare la parte finale della tragedia».
Costa-Gavras aveva già
pensato a qualche scena del film. «Volevamo inserire la visita di
Giovanni Leone a Washington, nel settembre 1974. Moro lo accompagnò
come ministro degli Esteri. Una sera si organizzò per la delegazione
italiana una festa a bordo di alcuni battelli sul Potomac. Leone
cantò ’O sole mio. Moro, invece, era su un’altra
imbarcazione, messo da parte anche dal punto di vista fisico. A
livello politico si era già decisa la sua sorte». Henry Kissinger,
segretario di Stato, diffidava di lui. Temeva che quel gentiluomo
riservato prima o poi avrebbe portato i comunisti al potere. Senza
contare che Moro era troppo filopalestinese per i gusti degli
americani.
Se il film di
Costa-Gavras avesse visto la luce, sarebbe stato speculare
all’Amerikano. Anche là c’era un sequestro (finito male,
per giunta), ma si trattava di un ufficiale dell’Fbi, che
all’apparenza faceva cooperazione allo sviluppo in un Paese
dell’America Latina e in realtà istruiva i poliziotti locali sui
modi più efferati di torturare i sovversivi della sinistra. Nel film
si chiamava Philip Santore, lo interpretava Yves Montand. Ma la
storia era quella, vera, di Dan Mitrione, sequestrato dai tupamaros
nel 1970, in un Uruguay che scivolava verso la dittatura. Le Brigate
rosse avevano scelto la stella a cinque punte copiando quella del
movimento uruguayano. Una banda di Robin Hood che rubavano ai ricchi
per dare ai poveri, così si presentavano. «Alla fine, però,
decisero di eliminare Mitrione. Organizzarono un voto fra i
dirigenti, perlopiù clandestini. E la maggioranza disse di sì.
Sbagliarono, perché scegliendo la strada della violenza perdettero
parte dell’appoggio popolare. Di lì a poco sarebbero stati
sopraffatti dalla dittatura nascente». Costa-Gavras e Solinas
andarono sul posto a verificare. «In Uruguay incontrammo Pepe
Mujica, che tanti anni dopo sarebbe diventato presidente. Fra i
tupamaros era uno dei più duri, ma conservava una sorprendente
gentilezza. Era fantasioso, quasi un personaggio poetico».
A Montevideo Costantino e
Franco capirono come erano andate le cose. A Roma, qualche anno dopo,
non fu così.
Pagina 99, 13 febbraio
2016
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