Tullio Garbari, Intellettuali alla "Rotonde". In prima fila da sin. Marinetti e Apollinaire |
Il giovane Guillaume
Apollinaire, ricco di estri voraci, di umori malinconici e profetici,
nonché di fantasia per l' erudizione, era un mistificatore
istintivo. Quand'era ancora studente, nel 1897, a diciassette anni,
firmava le sue poesie Guillaume Macabre. Era un grande utilizzatore
di biblioteche e di viaggi. Un soggiorno di qualche mese nelle
Ardenne belghe, un anno in Germania (dove fa il precettore) con
visite particolari della regione renana e di numerose città, un tour
dell'Europa centrale (Vienna, Praga) gli bastano per nutrire
l'immaginario di leggende locali e motivi folklorici. Legge di tutto,
naturalmente, e lo incantano gli autori medievali, le favole, la
pornografia, il melodramma nero. Tra gli scritti in prosa dei primi
anni spiccano le sedici novelle o racconti riuniti nel volume
L'Eresiarca & C. (Guanda, pagg. 173, lire 20.000), parte
dei quali sono appunto il frutto di suggestioni che risalgono al
periodo girovago (1899-1903), arricchite dalla rapinosa
frequentazione delle biblioteche. Le fonti di ispirazione sono però
anche altre, e si può dire che vanno dal Medioevo al magico moderno
(in una novella assistiamo alla granghignolesca efferatezza di un
produttore di cinegiornali che allestisce un crimine per filmarlo).
Possiamo domandarci quale filo attraversa L'Eresiarca e la
risposta sembra facile: i testi del libro sono tutti racconti
miracolosi, magari alla rovescia, storie popolari adulterate da
stridori comici, da sogghigni blasfemi e a volte deliziosamente
ambigui. Sono buffonerie travestite da enormità sacrileghe,
scelleratezze edificanti, o semplicemente allegorie delle
superstizioni, aspirazioni e aberrazioni umane. È noto che fu
Apollinaire a inventare la parola surrealtà assai prima che
Breton predicasse il surrealismo. E non c'è dubbio che i racconti
dell'Eresiarca siano di grana surrealista e, quasi tutti,
eccellenti esempi di humour nero. Quello che dà il titolo al volume
è una fumisteria pagliaccesca, in fondo alla quale l'autore ha però
l'opportunità di fornirci la chiave, o almeno una delle chiavi,
della sua tematica allegorica. In un dolce pomeriggio di maggio, il
narratore va a visitare il Reverendo Padre Benedetto Orfei, teologo e
gastronomo, devoto e ghiottone. Costui, dopo aver fondato un'eresia
alla fine del secolo XIX, debitamente scomunicato, vive in ritiro in
una sua villa di Frascati, avendo come fedeli i propri domestici, due
pie signore e qualche ragazzo di campagna a cui insegna i primi
rudimenti della nuova credenza. Mentre sorseggiano vin santo e
degustano dolciumi, Orfei spiega al narratore come ebbe in sogno la
rivelazione dei tre crocifissi (il ladrone di destra era Dio Padre,
il ladrone di sinistra lo Spirito Santo). Nell'accomiatarsi, il
visitatore si accorge con stupore che sotto la veste monacale
dell'eresiarca il corpo nudo mostra inequivocabili segni di
flagellazione. In seguito l'Orfei dà alle stampe due vangeli
paralleli, presto distrutti o sequestrati, dedicati l'uno alla morte
del Padre Eterno, l'altro alla vita dello Spirito Santo; quest'ultimo
è il più crudo e sconvolgente, in quanto rivela che la Divina
Persona volle incarnarsi nelle peggiori debolezze umane,
abbandonandosi a tutti i peccati per compassione dell' uomo. L'Orfei
muore in seguito a un'indigestione, ma i medici si dichiarano incerti
se attribuire il suo decesso alla gola o alle mortificazioni e
torture che egli si infliggeva. Conclusione: La verità è che l'
eresiarca era come tutti gli uomini, giacché sono tutti allo stesso
tempo peccatori e santi, quando non criminali e martiri.
Se questo è uno dei
temi-guida dei racconti, l' altro potremmo individuarlo nella
simultaneità di passato e presente, ossia nella mitologica
soppressione dei limiti del tempo e della morte: il tempo passato e
il presente coesistono, la vita non si rassegna a scomparire o non
può scomparire del tutto. Nel racconto di apertura, il narratore si
trova a Praga e domanda informazioni a un passante, un tipo sulla
sessantina, ancor vegeto, dai bianchi capelli lunghissimi e ben
pettinati, il naso prominente peloso e curvo. Il passante, rivelatosi
un gentile straniero che conosce il francese e le bellezze della
città, si accompagna al narratore e non la smette mai di camminare
mentre gli riferisce episodi della propria vita in secoli lontani. È
l' Ebreo Errante («Gesù mi ha ordinato di camminare fino al suo
ritorno»), che sempre passeggiando mangia, legge, fa all’amore.
Occasionalmente eccitato
da una giovane prostituta, il vecchio si cala le Braghe trascinando
via la ragazza. Il narratore fa in tempo a vedere il suo sesso
circonciso, di cui fornisce una pittoresca descrizione:«faceva
venire in mente un tronco nodoso o il palo variopinto dei Pellerossa,
screziato di terra di Siena, di scarlatto e del violetto cupo del
cielo in tempesta. In capo a un quarto d’ora tornarono. La ragazza
stanca, grondante passione, ma spaventata, gridava in tedesco:"Ha
camminato tutto il tempo, ha camminato tutto il tempo’’». Ogni
novanta o cento anni, l’Ebreo Errante è colpito da un male
terribile, ma guarisce e riprende il cammino, invano supplicando Dio
di permettergli di fermarsi. Il racconto si conclude con un
misterioso risvolto profetico che preferisco non anticipare.
La mescolanza di
truculento e di beffardo, la visionaria concretezza del simbolico e
dell’inverosimile, l’arte di incuriosire il lettore, la scrittura
molto vivida e pungente sono qualità e caratteri che fanno perdonare
la struttura approssimativa o sbrigativa di alcuni testi. Non si bada
tanto alle ingenuità o disinvolture narrative di un racconto, per
esempio, come «L'ebreo latino» (che è la storia di un maniaco
omicida ossessionato dal desiderio di salvarsi in punto di morte
mediante il battesimo); non vi si bada se si è incantati dal ghigno
sacrilego che affiora in ogni pagina per trasformarsi improvvisamente
alla fine in una espressione di incredulo rispetto per la religione.
Altri testi, brevi o
lunghetti che siano, vi prevalga la beffa o la crudeltà fantastica,
hanno invece un andamento perfettamente misurato. Collocherei tra
questi «Que vlo-ve?», «La rosa di Hildesheim», «I pellegrinipi
piemontesi», «La scomparsa di Honoré Subrac», che costituiscono
un piccolo campionario delle grandi capacità dell'autore di variare
stile e ambientazione insistendo pur sempre sui propri temi.
Il libro si chiude con la
serie delle avventure del barone d’Ormesan, «L'Anfìone falso
Messia»; qui siamo nel fantastico francamente buffonesco.
Turlupinatore, inventore di mirabt lanti congegni, dissipatore di
fortune, comico e sinistro avventuriero, il barone d’Ormesan è una
caricatur di Géry Piéret, un cialtrone belga, che Apollinaire
conosceva bene e aveva assunto come segretario nel 1907.
A modo suo, anche il
barone è un farsesco eresiarca che vuole fondare di nuovo il regno
di Giuda, facendo proseliti nelle masse con una macchinosa impostura.
Accecato dalla collera, il narratore gli scarica addosso la
rivoltella. Ahimé, ha ucciso il suo amico d’Ormesan, inventore del
diabolico tatto a distanza, criminale sì, ma compagno tanto
delizioso! Così, con tutte le sue diversità di motivi e di stile,
L’Eresiarca & C. è allegoricamente un libro unitario
che in conclusione fa fuori le sue stesse fonti.
[...]
La traduzione di
Montesanti mi sembra buona, assai corretta e perfino troppo
rispettosa della lettera dei testi. Per esempio, a pag. 33, c'è una
frase che suona così: «A partire da 1878, il Reverendo Padre
Benedetto Orfei fu, a Roma, il rappresentante presso lo Stato del suo
Ordine espulso»; la traduzione è perfettamente conforme
all’originale, a quanto mi risulta. Ma, appunto, l’originale è
abbastanza strano. Quell'espulso che sembra riferirsi a
Ordine, non dà un senso chiaro. Si può anche sospettare una
sbadataggine di Apollinaire o un errore tramandato; in ogni caso
sarebbe stato opportune spiegare in una nota che cosa intendesse
l’autore, ammesso che il testo francese sia esatto. Orfei aveva
fondato un'eresia, non un Ordine, ma probabilmente nel momento in cui
scriveva quella frase Apollinaire non vi fece caso; questa mi pare la
spiegazione più probabile.
Note essenziali e
utilissime il traduttore ha invece redatto per tutti riferimenti
eruditi. Apollinaire riteneva L’Eresiarca la sua migliore
opera in prosa, e questa edizione italiana conferma che il suo
giudizio non era infondato.
“la Repubblica”, 13
maggio 1987
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