Le madri di Plaza de Mayo |
«Gridò con quanto fiato
aveva in gola nel lungo corridoio mentre lo trascinavano in quel
locale lurido dove si fondevano in un unico ripugnante odore la
perversità e la carne bruciata. Di nuovo quegli uomini su di lui. Il
fiato trattenuto, l’elettricità che gli bucava la pelle, i
muscoli, la bocca sempre aperta e il dolore in ondate successive».
Negli stessi giorni in
cui sono apparse le prime notizie sulle torture che, al Cairo, sono
state inflitte al corpo di Giulio Regeni, è stato ripubblicato dalla
casa editrice Portatori d’acqua La notte dei lapis di María
Seoane e Héctor Ruiz Núñez (a cura di Alessandra Riccio, con
prefazione di Goffredo Fofi), il libro che racconta una delle pagine
più dolorose della dittatura insediatasi in Argentina nel 1976: la
violenta repressione scatenata dagli squadroni della morte contro il
dissenso espresso da un gruppo di studenti delle scuole superiori.
Proprio con il nome “Notte dei lapis” l’esercito e la polizia
di Buenos Aires (non c’è regime dove le due cose non finiscano per
confondersi e sovrapporsi) vollero indicare l’operazione di
sterminio dei liceali politicizzati di La Plata.
Il libro è costruito
sulla base della testimonianza di quello che per molto tempo si è
creduto essere l’unico sopravvissuto tra gli studenti, l’allora
diciottenne Pablo Díaz.
Sono passati quarant’anni
dal golpe argentino. Il 24 marzo del 1976 la Giunta militare guidata
da Jorge Videla, Emilio Massera e Orlando Agosti, in rappresentanza
dei vertici delle tre Armi, rovesciò il governo legittimo e diede il
via agli anni bui del totalitarismo. Oltre trentamila persone
scomparvero. E come ha scritto Horacio Verbitsky, in un libro chiave
per comprendere la mattanza di quegli anni, Il volo
(Fandango), la desaparición di migliaia di oppositori era un
obiettivo deliberatamente perseguito dalle alte gerarchie del regime.
Senza corpi, sarebbe sparita anche la prova più evidente della
repressione. Per anni, come sanno bene le Madri di Plaza de Mayo che
pretendevano venisse fatta luce sui desaparecidos, la polizia
e le forze armate hanno fatto dell’indeterminatezza circa la sorte
degli scomparsi la propria principale linea di difesa.
In Europa, non si è
avuta immediata percezione dell’eliminazione di migliaia di
persone. Ciò è accaduto almeno fino a quando non si sono raccolte,
sempre più numerose, le testimonianze degli esuli scampati alle
torture, o fino a quando non sono finiti nelle maglie di repressione
anche dei cittadini europei, come nel caso dell'italo-argentino Marco
Bechis, poi autore di uno dei film più spietati sull’universo
concentrazionario porteño: Garage Olimpo.
È impossibile ricordare
il colpo di Stato in Argentina, senza pensare alla fine di Giulio
Regeni nelle strade del Cairo. Non sappiamo ancora precisamente
perché Regeni sia stato torturato e ucciso, né conosciamo i nomi
degli aguzzini. Di sicuro però sappiamo che in Egitto, dopo il colpo
di Stato del luglio 2013 che ha rovesciato il governo dei Fratelli
musulmani, si contano oltre 600 desaparecidos. La repressione
non colpisce solo gli islamisti, ma anche l’opposizione laica e
democratica, coloro i quali erano scesi in piazza nel 2011 per
chiedere le dimissioni di Mubarak e in seguito hanno intuito, prima
di altri, il volto nascosto del regime di Al-Sisi.
In questo cortocircuito
temporale che lega l’Egitto di oggi all’Argentina di ieri, non
c’è solo l’estrema similitudine delle torture praticate. Ci sono
almeno altre due singolari coincidenze. La prima riguarda
direttamente la morte di Giulio Regeni. Anche in questo caso, le
sevizie subite da un cittadino occidentale gettano luce su tutte le
altre morti violente: quando il velo si squarcia, la natura di regimi
militari che promettono un nuovo ordine e la fine del caos
precedente, si rivela miseramente per quello che è.
E qui emerge un’altra
singolare coincidenza, a quarant’anni di distanza. Il regime di
Al-Sisi ha ottenuto non solo l’implicito sostegno di precisi
settori della società egiziana, ma anche di quei governi occidentali
che hanno intravisto nel nuovo corso un’alternativa preferibile al
caos crescente del governo islamista.
Eppure il dilemma tra
ordine e anarchia, visto dal cuore del Cairo, come da quello di
Buenos Aires quarant’anni fa, appare come radicalmente diverso.
Anche perché quell’«ordine» si nutre delle pratiche raccontate a
la Repubblica da Mohamed Soltan, a differenza di Regeni sopravvissuto
alle galere egiziane grazie a un passaporto statunitense: «Ci sono i
tuoi compagni prelevati che tornano con il corpo tagliuzzato o i
segni di bruciature sul corpo: devastati. Ci sono quelli che non
tornano: mai più. Ci sono le urla dalle celle accanto. C’è la
gente, come mio zio, a cui hanno tagliato due dita e spento non so
quanti mozziconi addosso prima di lasciarlo a morire».
A differenza del Cile
(dove Pinochet rovesciò il governo delle sinistre guidato da
Allende, facendo bombardare il palazzo presidenziale l’11 di
settembre del 1973), il caos argentino è stato sempre molto meno
decifrabile. Era più difficile cogliere i contrasti tra conservatori
e rivoluzionari all’interno della galassia del peronismo prima che
i militari decidessero di prendere il potere. Era più complicato
cogliere la linea politica dei gruppi di opposizione radicale che
scelsero la lotta armata, come i Montoneros. Anche per questo, in
Italia, il Pci e l’Unità all’inizio non si opposero al regime
militare, accostandosi alla linea dell’Urss, che non aveva
osteggiato il golpe. Per motivi diversi, ebbero una simile posizione
sia le gerarchie cattoliche sia il giornale italiano più letto, il
“Corriere della sera”.
Almeno all’inizio gli
oppositori furono lasciati soli. Fu lasciato solo lo scrittore
Rodolfo Walsh, di cui La nuova frontiera manda in libreria a fine
marzo una raccolta di reportage e testi politici, Il violento
mestiere di scrivere, che ho avuto la fortuna di curare.
Nel primo anniversario
del golpe, Walsh scrisse una Lettera aperta alla Giunta militare
che nessuno volle pubblicare. Il giorno dopo fu sequestrato e ucciso
da uno squadrone militare. Il suo corpo, come quello di tanti altri,
sparì nel nulla. Nella Lettera scriveva: «Dopo aver riempito
le carceri ordinarie, avete creato nelle principali circoscrizioni
militari del paese luoghi che si possono definire campi di
concentramento dove non può entrare nessun giudice, avvocato,
giornalista, osservatore internazionale. Il segreto militare sulle
procedure (...) trasforma la maggior parte delle detenzioni in
sequestri che consentono la tortura senza limiti e le fucilazioni
senza processo».
Pagina 99, 13 febbraio
2016
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