1.12.17

Libri. Torture e desaparecidos dall’Argentina all’Egitto (Alessandro Leogrande)

Le madri di Plaza de Mayo
«Gridò con quanto fiato aveva in gola nel lungo corridoio mentre lo trascinavano in quel locale lurido dove si fondevano in un unico ripugnante odore la perversità e la carne bruciata. Di nuovo quegli uomini su di lui. Il fiato trattenuto, l’elettricità che gli bucava la pelle, i muscoli, la bocca sempre aperta e il dolore in ondate successive».
Negli stessi giorni in cui sono apparse le prime notizie sulle torture che, al Cairo, sono state inflitte al corpo di Giulio Regeni, è stato ripubblicato dalla casa editrice Portatori d’acqua La notte dei lapis di María Seoane e Héctor Ruiz Núñez (a cura di Alessandra Riccio, con prefazione di Goffredo Fofi), il libro che racconta una delle pagine più dolorose della dittatura insediatasi in Argentina nel 1976: la violenta repressione scatenata dagli squadroni della morte contro il dissenso espresso da un gruppo di studenti delle scuole superiori. Proprio con il nome “Notte dei lapis” l’esercito e la polizia di Buenos Aires (non c’è regime dove le due cose non finiscano per confondersi e sovrapporsi) vollero indicare l’operazione di sterminio dei liceali politicizzati di La Plata.
Il libro è costruito sulla base della testimonianza di quello che per molto tempo si è creduto essere l’unico sopravvissuto tra gli studenti, l’allora diciottenne Pablo Díaz.
Sono passati quarant’anni dal golpe argentino. Il 24 marzo del 1976 la Giunta militare guidata da Jorge Videla, Emilio Massera e Orlando Agosti, in rappresentanza dei vertici delle tre Armi, rovesciò il governo legittimo e diede il via agli anni bui del totalitarismo. Oltre trentamila persone scomparvero. E come ha scritto Horacio Verbitsky, in un libro chiave per comprendere la mattanza di quegli anni, Il volo (Fandango), la desaparición di migliaia di oppositori era un obiettivo deliberatamente perseguito dalle alte gerarchie del regime. Senza corpi, sarebbe sparita anche la prova più evidente della repressione. Per anni, come sanno bene le Madri di Plaza de Mayo che pretendevano venisse fatta luce sui desaparecidos, la polizia e le forze armate hanno fatto dell’indeterminatezza circa la sorte degli scomparsi la propria principale linea di difesa.
In Europa, non si è avuta immediata percezione dell’eliminazione di migliaia di persone. Ciò è accaduto almeno fino a quando non si sono raccolte, sempre più numerose, le testimonianze degli esuli scampati alle torture, o fino a quando non sono finiti nelle maglie di repressione anche dei cittadini europei, come nel caso dell'italo-argentino Marco Bechis, poi autore di uno dei film più spietati sull’universo concentrazionario porteño: Garage Olimpo.
È impossibile ricordare il colpo di Stato in Argentina, senza pensare alla fine di Giulio Regeni nelle strade del Cairo. Non sappiamo ancora precisamente perché Regeni sia stato torturato e ucciso, né conosciamo i nomi degli aguzzini. Di sicuro però sappiamo che in Egitto, dopo il colpo di Stato del luglio 2013 che ha rovesciato il governo dei Fratelli musulmani, si contano oltre 600 desaparecidos. La repressione non colpisce solo gli islamisti, ma anche l’opposizione laica e democratica, coloro i quali erano scesi in piazza nel 2011 per chiedere le dimissioni di Mubarak e in seguito hanno intuito, prima di altri, il volto nascosto del regime di Al-Sisi.
In questo cortocircuito temporale che lega l’Egitto di oggi all’Argentina di ieri, non c’è solo l’estrema similitudine delle torture praticate. Ci sono almeno altre due singolari coincidenze. La prima riguarda direttamente la morte di Giulio Regeni. Anche in questo caso, le sevizie subite da un cittadino occidentale gettano luce su tutte le altre morti violente: quando il velo si squarcia, la natura di regimi militari che promettono un nuovo ordine e la fine del caos precedente, si rivela miseramente per quello che è.
E qui emerge un’altra singolare coincidenza, a quarant’anni di distanza. Il regime di Al-Sisi ha ottenuto non solo l’implicito sostegno di precisi settori della società egiziana, ma anche di quei governi occidentali che hanno intravisto nel nuovo corso un’alternativa preferibile al caos crescente del governo islamista.
Eppure il dilemma tra ordine e anarchia, visto dal cuore del Cairo, come da quello di Buenos Aires quarant’anni fa, appare come radicalmente diverso. Anche perché quell’«ordine» si nutre delle pratiche raccontate a la Repubblica da Mohamed Soltan, a differenza di Regeni sopravvissuto alle galere egiziane grazie a un passaporto statunitense: «Ci sono i tuoi compagni prelevati che tornano con il corpo tagliuzzato o i segni di bruciature sul corpo: devastati. Ci sono quelli che non tornano: mai più. Ci sono le urla dalle celle accanto. C’è la gente, come mio zio, a cui hanno tagliato due dita e spento non so quanti mozziconi addosso prima di lasciarlo a morire».
A differenza del Cile (dove Pinochet rovesciò il governo delle sinistre guidato da Allende, facendo bombardare il palazzo presidenziale l’11 di settembre del 1973), il caos argentino è stato sempre molto meno decifrabile. Era più difficile cogliere i contrasti tra conservatori e rivoluzionari all’interno della galassia del peronismo prima che i militari decidessero di prendere il potere. Era più complicato cogliere la linea politica dei gruppi di opposizione radicale che scelsero la lotta armata, come i Montoneros. Anche per questo, in Italia, il Pci e l’Unità all’inizio non si opposero al regime militare, accostandosi alla linea dell’Urss, che non aveva osteggiato il golpe. Per motivi diversi, ebbero una simile posizione sia le gerarchie cattoliche sia il giornale italiano più letto, il “Corriere della sera”.
Almeno all’inizio gli oppositori furono lasciati soli. Fu lasciato solo lo scrittore Rodolfo Walsh, di cui La nuova frontiera manda in libreria a fine marzo una raccolta di reportage e testi politici, Il violento mestiere di scrivere, che ho avuto la fortuna di curare.
Nel primo anniversario del golpe, Walsh scrisse una Lettera aperta alla Giunta militare che nessuno volle pubblicare. Il giorno dopo fu sequestrato e ucciso da uno squadrone militare. Il suo corpo, come quello di tanti altri, sparì nel nulla. Nella Lettera scriveva: «Dopo aver riempito le carceri ordinarie, avete creato nelle principali circoscrizioni militari del paese luoghi che si possono definire campi di concentramento dove non può entrare nessun giudice, avvocato, giornalista, osservatore internazionale. Il segreto militare sulle procedure (...) trasforma la maggior parte delle detenzioni in sequestri che consentono la tortura senza limiti e le fucilazioni senza processo».


Pagina 99, 13 febbraio 2016

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