Riprendo qui un ampio
stralcio da un'intervista ad Alfredo Reichlin per “Tuttolibri”,
utile ad evocare storie da molti dimenticate. (S.L.L.)
«Non fu certo semplice
la decisione di prendere il fucile e di dedicarmi alla lotta armata.
Avevo molta paura. Si dormiva dove si poteva, ogni giorno si cambiava
alloggio, si temevano i delatori. Fummo traditi da un compagno che
condusse la banda Koch alla cattura di Luigi Pintor, mio compagno di
banco al liceo Tasso, Franco Calamandrei e altri. Riuscii a fuggire,
fui accolto da religiosi, sotto i tetti della chiesa di Sant’Ignazio.
Altri giorni li passai chiuso nell'Almo Collegio Capranica, sotto la
protezione dei seminaristi. A spingerci a tutto questo era stato
anche il desiderio di vendicare la morte di Giaime. Traduttore delle
poesie di Rilke, che mi aveva folgorato quanto Montale, collaboratore
della casa editrice Einaudi, con la sua scelta di andare a combattere
diventò il simbolo di un gruppo di giovani uomini che guardavano
all’Europa e all'America raccontata da Pavese o da Vittorini e non
certoa Mosca, come avvenne in epoca di Guerra fredda».
La politica fu un
approdo conquistato anche con le letture?
«La mia famiglia,
traslocata dalla Svizzera a Barletta, aveva un’industria chimica
che fallì nel’29. Mio padre, allora, si trasferì a Roma per fare
l'avvocato: aveva una biblioteca nutrita, quella di un borghese che
prima aveva creduto nel fascismo e poi se ne era rapidamente
allontanato. Attingevo a quegli scaffali dove c'erano Papini e
Prezzolini, ma io preferivo Martin Eden di JackLondon, il
Kerouac dei miei tempi, per la sua attrazione per il viaggio senza
limiti e senza meta; apprezzavo l’Inghilterra raccontata da George
Macaulay Trevelyan, i testi del socialista Anatole France e quelli
pervasi di idee umanitarie di Romain Rolland e pure i libri,
proibitissimi, di Guido da Verona. A scuotere le coscienze, come si
diceva allora, contribuì pure il film Ossessione del 1943,
diretto da Luchino Visconti. Poi arrivò l’opera di Antonio
Gramsci, ma anche quella di Stalin e la Storia della rivoluzione
russa di Lev Trotskij. Io leggevo, studiavo, mi formavo ed ero
pure innamorato di una ragazza americana che sullo schermo ballava in
maniera meravigliosa, Ginger Rogers».
Finita la guerra
arriva la prima occupazione: commessoin una libreria. Vocazione o
caso?
«Veramente durò pochi
mesi, poi fui licenziato. Dovevo non solo vendere ma anche lavare per
terra, rassettare. Il padrone mi disse:“Caro ragazzo, sei bravo,ti
impegni. Ma mi imbarazzi… si vede che questo lavoro non fa per
te”.Entrai come cronista di nera a “l’Unità”».
Una vera squadra?
«Lo era: a cominciare da
Pietro Ingrao, direttore del giornale dal 1947 al ’57 (poi gli
subentrai io stesso), che andava a fare lui stesso le inchieste nelle
borgate con il taccuino in mano. Il nostro modello, secondo quanto ci
esortava a fare Togliatti, era il “Corriere della Sera”. Dovevamo
imparare dalla borghesia a conquistare le masse popolari. Togliatti a
sua volta era un esempio di applicazione e di tenacia. Arrivava in
redazione quasi per caso. Leggeva la cronaca di un dibattito
parlamentare che stava per andare in stampa. Fermava tutto e si
metteva a correggere il testo parola per parola. Diventammo amici e
mi ricordo la paella che Nilde Jotti preparò per il mio matrimonio
con Luciana Castellina. Era uno dei piatti preferiti dal Migliore per
motivi nostalgici, era il ricordo della guerra di Spagna».
Il periodo più
intrigante e fecondo dal punto di vista culturale?
«Gli Anni Sessanta. Io
continuavo a leggere e anche a rileggere i grandi classici
delpensiero politico e dell'economia da Adam Smith a Marx e anche i
classici della letteratura, da Dostoevskij a Tolstoj, Proust,
Flaubert, Thomas Mann. Ma intanto arrivava l'opera di Elsa Morante e
di Pier Paolo Pasolini; La ciociara, uscitanel 1957, mentre
nel 1960 faceva la sua apparizione La noia di
Moravia; e poi c’erano La speculazione edilizia e La
giornata di uno scrutatore di Calvino, personaggio affascinante,
ironico e di poche parole. Tutti questi autori, i film di Rossellini,
Visconti, Fellini, le mostre di Mafai, Morandi e Guttuso erano la
dimostrazione che la nostra arte era veramente di livello
internazionale».
Il romanzo preferito
in assoluto?
«Tenera è la notte
di Francis Scott Fitzgerald, con la sua storia di grandi
seduzioni: mi ci rispecchiavo, anche a me piaceva molto amoreggiare.
Ho sempre voluto essere me stesso e non trasformarmi in un grigio
funzionario di partito e mantenere il mio stile, persino
nell’abbigliamento».
Ai più giovani, quale
autore consiglia?
«Antonio Gramsci capace di dire: “una generazione che deprime la generazione precedente, che non riesce a vederne le grandezze…non può che essere senza fiducia in se stessa… una generazione vitale e forte tende invece a sopravvalutare la precedente”. Ai ventenni voglio ricordare che non partono da zero. Questo valeva anche per noi: avevamo alle spalle la grande storia del socialismo italiano. La politica non aveva paura di parlare del destino dell’umanità intera. Dai libri di Gramsci cerco oggi risposte sul presente. Era un eretico che, dal fondo del carcere fascista, non credeva al crollo del capitalismo ma rifletteva su un nuovo capitalismo e pensava al potere come egemonia. Che si conquista anche attraverso l’apertura alle opinioni degli altri, al confronto-scontro, a cui credo di essermi sempre dedicato. Una pratica che forse oggi manca ai nostri politici, anche a quelli della mia parte, che a volte si cimentano in un dialogo tra sordi».
«Antonio Gramsci capace di dire: “una generazione che deprime la generazione precedente, che non riesce a vederne le grandezze…non può che essere senza fiducia in se stessa… una generazione vitale e forte tende invece a sopravvalutare la precedente”. Ai ventenni voglio ricordare che non partono da zero. Questo valeva anche per noi: avevamo alle spalle la grande storia del socialismo italiano. La politica non aveva paura di parlare del destino dell’umanità intera. Dai libri di Gramsci cerco oggi risposte sul presente. Era un eretico che, dal fondo del carcere fascista, non credeva al crollo del capitalismo ma rifletteva su un nuovo capitalismo e pensava al potere come egemonia. Che si conquista anche attraverso l’apertura alle opinioni degli altri, al confronto-scontro, a cui credo di essermi sempre dedicato. Una pratica che forse oggi manca ai nostri politici, anche a quelli della mia parte, che a volte si cimentano in un dialogo tra sordi».
Tuttolibri La Stampa, 3 luglio 2010
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