A settembre la rinuncia
di Nobukazu Kuriki certificò la resa del genere umano. A 700 metri
dalla vetta lo scalatore giapponese, che durante un precedente
tentativo aveva perso nove dita per congelamento, ebbe la lucidità
di capire che nemmeno quella era la volta buona. E così, per la
prima volta dal 1974, lo scorso anno il monte Everest non è stato
conquistato.
Dal 29 maggio 1953,
giorno che rese immortali Hillary e Tenzing, si calcola che oltre 5
mila uomini e donne siano arrivati a quota 8848. Solo nel 2013,
riporta l’Himalayan Database, 658 scalatori hanno raggiunto la
cima. Un’aberrazione, denunciò su “National Geographic” lo
scrittore e alpinista Mark Jenkins, in un reportage dal titolo C’è
folla sull’Everest. Lo stesso concetto più volte espresso da
Reinhold Messner, primo uomo a raggiungere la vetta senza ossigeno,
che ha sempre lamentato l’assalto dei “turisti della cordata”.
Una singolare tradizione
vuole che gli anni più fortunati per le ascensioni siano quelli
successivi alle grandi tragedie. Nel 2012 undici persone avevano
perso la vita sul massiccio e prodigo di gioie era stato il 1997,
all’indomani della disastrosa spedizione di Scott Fischer narrata
dal libro Aria sottile di Jon Krakauer e dal film Everest.
La valanga che nella primavera 2014 trascinò con sé 16 sherpa
poteva essere il triste presagio di una nuova eroica stagione di
selfie in vetta. Invece ecco l’imponderabile. Lo scorso 25 aprile
una scossa di magnitudo Richter 7.8 causò la morte di oltre 8 mila
persone tra le valli nepalesi, tra loro 17 alpinisti e speleologi
travolti da un distaccamento al South Base Camp. «Anche se mai
ufficialmente chiuso, l’Everest è rimasto praticamente isolato»,
ha spiegato al “Washington Post” l’avvocato alpinista Alan
Arnette. «Visto il pericolo, gli sherpa hanno smesso di occuparsi
della gestione della via principale lungo il versante nepalese,
mentre il governo cinese ha chiuso in tutto il Tibet i percorsi di
scalata». Terminate le scossa di assestamento e fallito anche il
tentativo di Kuriki era ormai inverno, che significa meno 60 sul
termometro e corrente a getto che soffia a 100 chilometri orari.
Meglio lasciar perdere.
Ma non pesano solo le
conseguenze di un sisma che ha sconvolto per sempre la morfologia di
quelle estremità. A limitare gli approcci all’Everest hanno
contribuito questioni burocratiche e monetarie. Occorrono tempo e
pazienza per ottenere i permessi e per reperire trasporti e giacigli,
perché la missione incrocia anche i meno ambiziosi trekking lungo i
sentieri himalayani. La pratica può costare tra i 30 e i 70 mila
euro a testa, cifre che legano i destini degli alpinisti a quelli di
uno sponsor.
Negli ultimi anni
l’esplosione delle spese ha portato alla fuga dal Nepal in favore
del fronte tibetano. Il governo di Katmandu, che dal business
dell’Everest trae il 4% del suo prodotto interno lordo e 500 mila
posti di lavoro, impone dazi tra gli 11 e i 25 mila euro a testa a
seconda del momento e dell’entità del gruppo, mentre Pechino si
accontenta di cifre decisamente inferiori. La via per la cresta
nord-est, completata per la prima volta da un trio di scalatori
cinesi nel 1960, è considerata più tecnica e impegnativa nella
parte superiore. Ma costa un terzo di meno e permette di evitare la
traversata sotto la cascata Khumbu, che rende impervio l’avvio
dell’opposta ascensione e stecchisce di paura anche i più esperti.
Tra quei ghiacci, dove
nuovi crepacci si aprono di continuo, è azzardato prescindere
dall’esperienza di uno sherpa. In molti casi sono proprio guide e
portatori a organizzare la spedizione. I più quotati possono
incassare fino a 10 mila dollari, cifre folli se rapportate
all’economia nepalese. Nel 2014, dopo la morte dei 16 colleghi, gli
sherpa reclamarono paghe migliori, assicurazioni e riduzione dei
carichi. Erano entrati in sciopero, non apprezzato dalle centinaia di
scalatori che dovettero rinunciare all’impresa della vita. Così
come un anno prima non aveva gradito la loro irruenza Simone Moro,
quasi linciato da un gruppo di nativi infuriati per un presunto
sgarbo tra le corde fisse.
Il bergamasco, oggi
impegnato in invernale sul Nanga Parbat, è uno degli alpinisti più
forti in circolazione. In cima con lui nel 2002 c’era il compaesano
Mario Curnis, che a 66 anni diveniva il più anziano a raggiungere la
vetta prima del record dell’ottantenne Yuichiro Miura. «Il
terremoto è stato un guaio, ma credo che il crollo delle spedizioni
nel 2015 sia anzitutto una questione economica», commenta dalla sua
casa nei boschi della Val Seriana. «L’Everest costa sempre di più
e tanti rinunciano; mi spiace perché noi alpinisti da quelle parti
portiamo denaro e qualità della vita».
Nelle prossime settimane,
quando le temperature lo permetteranno, si capirà cosa riserverà il
2016. Per ora si segnalano gli annunci di nuove restrizioni del
governo nepalese, che intende negare la vetta a minorenni e over 75,
e l’allarme lanciato dall’American Alpine Club, secondo cui il
riscaldamento globale rende ogni giorno più instabili e letali i
ghiacciai d’alta quota.
«Facciamocene una
ragione» è quanto consiglia la saggezza montanara di Mario Curnis,
oggi ottantenne, che a dicembre ha dovuto rinunciare a scalare
l’Elbrus a causa del colpo della strega rimediato per accarezzare
un cane randagio. «È il tetto del pianeta, arrivare lassù è una
soddisfazione e un privilegio. Ma ci sono tante montagne sulla
Terra».
Pagina 99, 6 febbraio
2016
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