7.12.17

Ritorna l'atomico Lucrezio (Alfredo Giuliani)

Il Lucrezio del Pincio
[…] Al confronto col poema di Lucrezio, la Commedia di Dante è quasi un thriller, un romanzo d'azione, ricco di suspense, assortito di personaggi, stati d' animo, svolte avventurose, ambienti fascinosi, ambiguità irresolubili. È facile appassionarsi a un simile romanzo d'azione che oltretutto finisce nell'apoteosi mistica, in uno spettacolo mirabolante di suoni e luci paradisiache. Ma provate a prendere passione per settemila e passa esametri che raccontano il melodramma cosmico tale e quale, che parlano della psicologia dell' uomo dentro questo melodramma, degli atomi invisibili e della mortalità del tutto, e che finisce con la devastazione della peste (tanto per esemplificare ciò che ha sostenuto più volte: che la natura delle cose è gravemente difettosa). Potreste sentirvi intimiditi, con la voglia di guardare da un' altra parte, vinti dallo scoramento.
Non potrei darvi completamente torto. Ma dico: vediamo come noi lettori ingenui possiamo entrare nel melodramma severo e restarne incantati. Non ci soccorrono notizie sull'autore; è verosimile che sia vissuto tra il 98 e il 55 a.C. e questo è quasi tutto. Si aggiunga qualche scarno giudizio di colleghi scrittori, tra i quali spicca il giovane Ovidio, che lo chiama sublime e dice che la sua poesia perirà soltanto il giorno che perirà la terra. Quattro secoli dopo, attingendo a non si sa quale fonte o leggenda, san Girolamo annota che Lucrezio, divenuto pazzo per un filtro d'amore, dopo aver scritto nei momenti di lucidità diversi libri in seguito pubblicati da Cicerone, si suicidò all'età di quarantaquattro anni. Può essere tutto falso e maliziosamente vero. Non si scrive il De rerum natura in intervalli di lucidità, è ridicolo supporlo. Ma è vero che Lucrezio doveva essere pazzo di razionalità. Si può essere ossessi dalla ragione e morire di troppa lucidità.
Quanto all'amore, Lucrezio doveva conoscerne tutta la potenza; non per caso il poema si apre con il famoso inno a Venere genitrice, hominum divumque voluptas, voluttà degli umani e degli dèi. Ma più ancora ci colpiscono la fisiologia e la psicologia dell'amore (che seguono con morbido passaggio quelle del sogno) nel libro IV: unaque res haec est, cuius quam plurima habemus, / tam magis ardescit dira cuppedine pectus, amore è l' unica cosa nella quale più è grande il possesso, più il cuore arde d'un desiderio feroce. Nei duecentocinquanta esametri che concludono il IV libro, dedicati ai tormenti reali e ai risibili miraggi di Venere, c'è una rabies, un furore espressivo e conoscitivo imparagonabile con qualsivoglia altra poesia di cui mi ricordi. Se le dolcezze della passione si mutano presto in gelida pena (frigida cura), meglio lenire l'orrenda brama (dira libido) volgendosi alla Venere vulgivaga (errabonda). Ora, questa attraente parola composta, vulgivaga, dice il commentatore che non è attestata in nessun altro autore. È dunque di qui che l'ha prelevata il nostro più illustre ossesso d'amore, D'Annunzio, che la usa almeno nei Taccuini. Doveva piacergli perché il composto contiene graziosamente una terza parola (vul...va). Filtro o non filtro, suicidio o non suicidio, potremmo anche sospettare in Lucrezio una travagliata contesa, forse micidiale, con le deliranti ragioni di Venere.
Per farci accogliere dal poema e per accoglierlo in noi stessi dobbiamo rovesciare la credenza comune, che Lucrezio metta in versi, sia pure col suo splendido linguaggio ripido e corposo, la dottrina materialistica epicurea. Il De rerum natura non è semplicemente il poema della materia. È il poema della mente, dell'intelligenza tragica e divinante. Lucrezio invita il lettore, all'inizio del primo libro, a prestargli orecchio semotum a curis, scacciata ogni inquietudine, e libero da ogni supposta conoscenza. Se lo prendete alla lettera vi accorgete presto che la fisica, la cosmologia, l'etica epicuree diventano qui il modello dell'unica sapienza possibile: un razionalismo visionario, che, dal pensiero dell'atomo invisibile, attraverso l' esplorazione dei fenomeni di ogni ordine, naturali e umani, si esalta oltre le mura fiammeggianti del mondo, longe flammentia moenia mundi.
Elevando Epicuro a eroe del pensiero, che omne immensum peragravit mente animoque (che percorse con il cuore e la mente l' immenso universo), Lucrezio fonde in una le forme didascalica ed epica. Puntando l'attenzione su questo duplice aspetto del poema, Gian Biagio Conte insiste anche sull' importanza dell'intonazione vaticinante esemplata dalla figura letteraria di Empedocle, poeta-filosofo che più di ogni altro s'era atteggiato a profeta dei segreti della natura, e che Lucrezio elogia per certe luminose scoperte (l'indistruttibilità della materia) e la forza dello stile. Si salda così un circolo tra poeta, filosofo-scienziato e profeta, che è a ben vedere una coesione di energie retoriche altamente produttive di pathos. Ciò che seduce Lucrezio, ed è questa la sua peculiare novità e profondità, è l'idea di offrire al lettore, scrive Conte, una percezione sublime che sia anche delle cause, non solo delle impressioni. Difatti è proprio la poetica del De rerum natura a coinvolgere il lettore nell'epos del pensare e a trascinarlo a sua volta verso il sublime.
Si resta affascinati da una poesia che vuol spiegare tutto: ciò che accade e ciò che non accade, ciò che è visibile e ciò che è invisibile, gli ordini e gli accidenti del Caos. L'impresa è pensabile dopo che un divino uomo di Grecia ha osato sfidare le porte sbarrate della natura. Se noi possedessimo tutte le opere di Epicuro (Diogene Laerzio ne enumera come migliori una quarantina!), a cominciare dal fondamentale Della natura (Peri physeos, in trentasette libri), invece che poche lettere e frammenti, se potessimo cioè leggere le fonti principali di Lucrezio, capiremmo certamente meglio l'ebbro entusiasmo del poeta latino di raggiungere le fonti intatte e trarne sorsi (integros accedere fontis atque haurire). E si potrebbe magari valutare serenamente il quanto e il come di trasposizioni e rielaborazioni da parte di un devoto che dichiara esplicitamente: te imitari aveo... Tu pater es, rerum inventor, anelo imitarti... Tu, padre, scopritore del vero. Chi saprà mai quali e quante tra le stupende analogie di cui è costellato il testo lucreziano, e che danno l'ultimo tocco persuasivo ai suoi sottili ragionamenti, sono sue o gli provengono dalle fonti?
La materia che sente suscitava lo stupore di Leopardi. Lucrezio, che sembra non volersi stupire di nulla, eccolo affannarsi a spiegare che il sentire è una funzione degli organismi vitali. Gli atomi, di cui è fatta la materia dei corpi, sono insensibili (o vuoi supporre delirando che esistono gli atomi del tatto, gli atomi del ridere o del pensare?); la sensibilità si crea dalla loro aggregazione. Creature sensibili si compongono di particelle del tutto prive di senso. L'animo vuole conoscere, questo è il tema spasmodico di Lucrezio. Anche le contraddizioni e le lacerazioni e i mali della realtà che tocchiamo e ci tocca accadono per testimoniare che l'universo non ha fondo, non ha centro, non ha dove sostare; eppure una ragione materiale lo conduce di necessità in contingenza, e di contingenza in necessità, verso una continua regolata mutazione di rigogli e catastrofi. Fino alla rovina finale. Eppure, basta conoscere la dinamica dei terremoti e, per causa loro, la scomparsa di intere città nel fondo del mare per immaginarsi il tempo di morte del mondo; il quale in un momento può crollare schiantato con spaventoso fragore (succidere horrisono posse omnia victa fragore).
Come ci si aspetta dall'inclinazione drammatica di Lucrezio, suonano bellissime le sezioni sui fenomeni naturali: cataclismi, flagelli, venti, piogge, fulmini. Attenti alle nuvole quando, poniamo, si scontrano sospinte da venti contrari. Producono anche un fragore sulle vaste pianure del mondo, come talora un velario disteso su grandi teatri strepita fra i pali e le travi agitato dal vento, e a volte squarciato infuria tra soffi incalzanti e richiama alla mente il crepitio dei fogli strappati (VI, 108-112). Ma non mi stanco di ammirare le sue facoltà logiche e visionarie accese dal comportamento degli atomi. Gli atomisti delle loro particelle conoscevano vita e miracoli. Si sa che Lucrezio non usa il grecismo atomi per motivi essenzialmente metrici, e le chiama primordia rerum, o semina, corpora prima, principia. Riferire perché hanno da essere immutabili, elementari, insensibili, infinite di numero e di limitata varietà (nel peso e nella forma) sarebbe inutilmente noioso. Ma vale la pena notare la ragione squisita della loro impercepibile piccolezza: è necessario che le particelle nel generare le cose impieghino una natura segreta e invisibile, affinché niente interferisca nel processo e precluda a qualsiasi cosa creata di poter essere ciò che propriamente è (libro I, 788-791). Tale mirabile circospezione degli atomi ha cominciato a traballare quando la scienza moderna ha imparato a interferire... Gli atomisti trattano le invisibili vicissitudini delle loro creature con geniale competenza: “Certamente, infatti, gli atomi non si sono disposti ciascuno nell'ordine proprio per un loro disegno sagace, né certo pattuirono quali moti avrebbero impresso: ma poiché in mille modi diversi, sbalzati dagli urti, senza posa si aggirano nel vuoto da tempo infinito, e provano ogni genere di moto e ogni tipo di unione, giungono infine ad assumere quelle tali disposizioni di cui consiste l'attuale struttura dell' universo...” (libro I, 1021-1028). Molti di loro non riescono ad aggregarsi, a trovare un' accoglienza (vedi libro II, 109-111). Dell'agitato destino di tali derelitti puoi percepire una parvenza e un'immagine (simulacrum et imago) osservando i corpuscoli vorticanti in un raggio di sole che trapela nell'oscurità o penombra d'una stanza.
Come si può arguire dal passo più lungo che ho sopra citato, Epicuro aveva concepito un principio di indeterminazione, valido per i moti e le aggregazioni degli atomi, ma anche per le volizioni degli esseri animati. L'impulso a un movimento ci nasce dal cuore, è deciso dalla mente e quindi trasmesso alle membra. Vuoi averne un'immagine concreta? Lucrezio ci presenta i cavalli allineati dietro la gabbia e pronti a scattare sulla pista: “Non vedi che all'improvviso aprirsi delle sbarre l'impaziente energia dei cavalli non riesce tuttavia a prorompere così velocemente quanto la (loro) mente in sé vorrebbe?” (II, 263-265). Quell'intervallo tra il desiderio e l' atto è un prezioso indizio del nostro libero arbitrio! Non convincente il ragionamento, ma singolarmente vivida l'immagine (carceribus non posse tamen prorumpere equorum / vim cupidam tam de subito quam mens avet ipsa).
La versione di Luca Canali è pregevole; e mi rendo conto che tradurre Lucrezio dev'essere un continuo travaglio. Ho provato a tradurre anch'io qualche gruppetto di versi e ho tremato. Ma latinista non sono, epicureo forse. Il commento di Ivano Dionigi è in certi casi troppo succinto (perché non gli hanno dato più spazio?), ma preciso e ricco di notazioni retoriche e stilistiche utilissime. Sì, questo Lucrezio si può leggere, anche passata l'estate. Quando lo si è letto intensamente succede poi che di tutta la grandiosa architettura vi resti in mente una piccola immagine. Per me è quella della serpe sgusciante che lascia la sua veste fra gli spini: nam saepe videmus illorum spoliis vepris volitantibus auctas, “spesso, infatti vediamo i roveti adornarsi delle sue spoglie oscillanti”.


“la Repubblica”, 29 agosto 1990  

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