Il Lucrezio del Pincio |
[…] Al confronto col
poema di Lucrezio, la Commedia di Dante è quasi un thriller,
un romanzo d'azione, ricco di suspense, assortito di personaggi,
stati d' animo, svolte avventurose, ambienti fascinosi, ambiguità
irresolubili. È facile appassionarsi a un simile romanzo d'azione
che oltretutto finisce nell'apoteosi mistica, in uno spettacolo
mirabolante di suoni e luci paradisiache. Ma provate a prendere
passione per settemila e passa esametri che raccontano il melodramma
cosmico tale e quale, che parlano della psicologia dell' uomo dentro
questo melodramma, degli atomi invisibili e della mortalità del
tutto, e che finisce con la devastazione della peste (tanto per
esemplificare ciò che ha sostenuto più volte: che la natura delle
cose è gravemente difettosa). Potreste sentirvi intimiditi, con la
voglia di guardare da un' altra parte, vinti dallo scoramento.
Non potrei darvi
completamente torto. Ma dico: vediamo come noi lettori ingenui
possiamo entrare nel melodramma severo e restarne incantati. Non ci
soccorrono notizie sull'autore; è verosimile che sia vissuto tra il
98 e il 55 a.C. e questo è quasi tutto. Si aggiunga qualche scarno
giudizio di colleghi scrittori, tra i quali spicca il giovane Ovidio,
che lo chiama sublime e dice che la sua poesia perirà soltanto il
giorno che perirà la terra. Quattro secoli dopo, attingendo a non si
sa quale fonte o leggenda, san Girolamo annota che Lucrezio, divenuto
pazzo per un filtro d'amore, dopo aver scritto nei momenti di
lucidità diversi libri in seguito pubblicati da Cicerone, si suicidò
all'età di quarantaquattro anni. Può essere tutto falso e
maliziosamente vero. Non si scrive il De rerum natura in
intervalli di lucidità, è ridicolo supporlo. Ma è vero che
Lucrezio doveva essere pazzo di razionalità. Si può essere ossessi
dalla ragione e morire di troppa lucidità.
Quanto all'amore,
Lucrezio doveva conoscerne tutta la potenza; non per caso il poema si
apre con il famoso inno a Venere genitrice, hominum divumque
voluptas, voluttà degli umani e degli dèi. Ma più ancora ci
colpiscono la fisiologia e la psicologia dell'amore (che seguono con
morbido passaggio quelle del sogno) nel libro IV: unaque res haec
est, cuius quam plurima habemus, / tam magis ardescit dira cuppedine
pectus, amore è l' unica cosa nella quale più è grande il
possesso, più il cuore arde d'un desiderio feroce. Nei
duecentocinquanta esametri che concludono il IV libro, dedicati ai
tormenti reali e ai risibili miraggi di Venere, c'è una rabies,
un furore espressivo e conoscitivo imparagonabile con qualsivoglia
altra poesia di cui mi ricordi. Se le dolcezze della passione si
mutano presto in gelida pena (frigida cura), meglio lenire
l'orrenda brama (dira libido) volgendosi alla Venere vulgivaga
(errabonda). Ora, questa attraente parola composta, vulgivaga,
dice il commentatore che non è attestata in nessun altro autore. È
dunque di qui che l'ha prelevata il nostro più illustre ossesso
d'amore, D'Annunzio, che la usa almeno nei Taccuini. Doveva
piacergli perché il composto contiene graziosamente una terza parola
(vul...va). Filtro o non filtro, suicidio o non suicidio, potremmo
anche sospettare in Lucrezio una travagliata contesa, forse
micidiale, con le deliranti ragioni di Venere.
Per farci accogliere dal
poema e per accoglierlo in noi stessi dobbiamo rovesciare la credenza
comune, che Lucrezio metta in versi, sia pure col suo splendido
linguaggio ripido e corposo, la dottrina materialistica epicurea. Il
De rerum natura non è semplicemente il poema della materia. È
il poema della mente, dell'intelligenza tragica e divinante. Lucrezio
invita il lettore, all'inizio del primo libro, a prestargli orecchio
semotum a curis, scacciata ogni inquietudine, e libero da ogni
supposta conoscenza. Se lo prendete alla lettera vi accorgete presto
che la fisica, la cosmologia, l'etica epicuree diventano qui il
modello dell'unica sapienza possibile: un razionalismo visionario,
che, dal pensiero dell'atomo invisibile, attraverso l' esplorazione
dei fenomeni di ogni ordine, naturali e umani, si esalta oltre le
mura fiammeggianti del mondo, longe flammentia moenia mundi.
Elevando Epicuro a eroe
del pensiero, che omne immensum peragravit mente animoque (che
percorse con il cuore e la mente l' immenso universo), Lucrezio fonde
in una le forme didascalica ed epica. Puntando l'attenzione su questo
duplice aspetto del poema, Gian Biagio Conte insiste anche sull'
importanza dell'intonazione vaticinante esemplata dalla figura
letteraria di Empedocle, poeta-filosofo che più di ogni altro s'era
atteggiato a profeta dei segreti della natura, e che Lucrezio elogia
per certe luminose scoperte (l'indistruttibilità della materia) e la
forza dello stile. Si salda così un circolo tra poeta,
filosofo-scienziato e profeta, che è a ben vedere una coesione di
energie retoriche altamente produttive di pathos. Ciò che
seduce Lucrezio, ed è questa la sua peculiare novità e profondità,
è l'idea di offrire al lettore, scrive Conte, una percezione sublime
che sia anche delle cause, non solo delle impressioni. Difatti è
proprio la poetica del De rerum natura a coinvolgere il
lettore nell'epos del pensare e a trascinarlo a sua volta verso il
sublime.
Si resta affascinati da
una poesia che vuol spiegare tutto: ciò che accade e ciò che non
accade, ciò che è visibile e ciò che è invisibile, gli ordini e
gli accidenti del Caos. L'impresa è pensabile dopo che un divino
uomo di Grecia ha osato sfidare le porte sbarrate della natura. Se
noi possedessimo tutte le opere di Epicuro (Diogene Laerzio ne
enumera come migliori una quarantina!), a cominciare dal fondamentale
Della natura (Peri physeos, in trentasette libri),
invece che poche lettere e frammenti, se potessimo cioè leggere le
fonti principali di Lucrezio, capiremmo certamente meglio l'ebbro
entusiasmo del poeta latino di raggiungere le fonti intatte e trarne
sorsi (integros accedere fontis atque haurire). E si potrebbe
magari valutare serenamente il quanto e il come di trasposizioni e
rielaborazioni da parte di un devoto che dichiara esplicitamente: te
imitari aveo... Tu pater es, rerum inventor, anelo imitarti...
Tu, padre, scopritore del vero. Chi saprà mai quali e quante tra le
stupende analogie di cui è costellato il testo lucreziano, e che
danno l'ultimo tocco persuasivo ai suoi sottili ragionamenti, sono
sue o gli provengono dalle fonti?
La materia che sente
suscitava lo stupore di Leopardi. Lucrezio, che sembra non volersi
stupire di nulla, eccolo affannarsi a spiegare che il sentire è una
funzione degli organismi vitali. Gli atomi, di cui è fatta la
materia dei corpi, sono insensibili (o vuoi supporre delirando che
esistono gli atomi del tatto, gli atomi del ridere o del pensare?);
la sensibilità si crea dalla loro aggregazione. Creature sensibili
si compongono di particelle del tutto prive di senso. L'animo vuole
conoscere, questo è il tema spasmodico di Lucrezio. Anche le
contraddizioni e le lacerazioni e i mali della realtà che tocchiamo
e ci tocca accadono per testimoniare che l'universo non ha fondo, non
ha centro, non ha dove sostare; eppure una ragione materiale lo
conduce di necessità in contingenza, e di contingenza in necessità,
verso una continua regolata mutazione di rigogli e catastrofi. Fino
alla rovina finale. Eppure, basta conoscere la dinamica dei terremoti
e, per causa loro, la scomparsa di intere città nel fondo del mare
per immaginarsi il tempo di morte del mondo; il quale in un momento
può crollare schiantato con spaventoso fragore (succidere
horrisono posse omnia victa fragore).
Come ci si aspetta
dall'inclinazione drammatica di Lucrezio, suonano bellissime le
sezioni sui fenomeni naturali: cataclismi, flagelli, venti, piogge,
fulmini. Attenti alle nuvole quando, poniamo, si scontrano sospinte
da venti contrari. Producono anche un fragore sulle vaste pianure del
mondo, come talora un velario disteso su grandi teatri strepita fra i
pali e le travi agitato dal vento, e a volte squarciato infuria tra
soffi incalzanti e richiama alla mente il crepitio dei fogli
strappati (VI, 108-112). Ma non mi stanco di ammirare le sue facoltà
logiche e visionarie accese dal comportamento degli atomi. Gli
atomisti delle loro particelle conoscevano vita e miracoli. Si sa che
Lucrezio non usa il grecismo atomi per motivi essenzialmente
metrici, e le chiama primordia rerum, o semina, corpora
prima, principia. Riferire perché hanno da essere
immutabili, elementari, insensibili, infinite di numero e di limitata
varietà (nel peso e nella forma) sarebbe inutilmente noioso. Ma vale
la pena notare la ragione squisita della loro impercepibile
piccolezza: è necessario che le particelle nel generare le cose
impieghino una natura segreta e invisibile, affinché niente
interferisca nel processo e precluda a qualsiasi cosa creata di poter
essere ciò che propriamente è (libro I, 788-791). Tale mirabile
circospezione degli atomi ha cominciato a traballare quando la
scienza moderna ha imparato a interferire... Gli atomisti trattano le
invisibili vicissitudini delle loro creature con geniale competenza:
“Certamente, infatti, gli atomi non si sono disposti ciascuno
nell'ordine proprio per un loro disegno sagace, né certo pattuirono
quali moti avrebbero impresso: ma poiché in mille modi diversi,
sbalzati dagli urti, senza posa si aggirano nel vuoto da tempo
infinito, e provano ogni genere di moto e ogni tipo di unione,
giungono infine ad assumere quelle tali disposizioni di cui consiste
l'attuale struttura dell' universo...” (libro I, 1021-1028). Molti
di loro non riescono ad aggregarsi, a trovare un' accoglienza (vedi
libro II, 109-111). Dell'agitato destino di tali derelitti puoi
percepire una parvenza e un'immagine (simulacrum et imago)
osservando i corpuscoli vorticanti in un raggio di sole che trapela
nell'oscurità o penombra d'una stanza.
Come si può arguire dal
passo più lungo che ho sopra citato, Epicuro aveva concepito un
principio di indeterminazione, valido per i moti e le aggregazioni
degli atomi, ma anche per le volizioni degli esseri animati.
L'impulso a un movimento ci nasce dal cuore, è deciso dalla mente e
quindi trasmesso alle membra. Vuoi averne un'immagine concreta?
Lucrezio ci presenta i cavalli allineati dietro la gabbia e pronti a
scattare sulla pista: “Non vedi che all'improvviso aprirsi delle
sbarre l'impaziente energia dei cavalli non riesce tuttavia a
prorompere così velocemente quanto la (loro) mente in sé vorrebbe?”
(II, 263-265). Quell'intervallo tra il desiderio e l' atto è un
prezioso indizio del nostro libero arbitrio! Non convincente il
ragionamento, ma singolarmente vivida l'immagine (carceribus non
posse tamen prorumpere equorum / vim cupidam tam de subito quam mens
avet ipsa).
La versione di Luca
Canali è pregevole; e mi rendo conto che tradurre Lucrezio
dev'essere un continuo travaglio. Ho provato a tradurre anch'io
qualche gruppetto di versi e ho tremato. Ma latinista non sono,
epicureo forse. Il commento di Ivano Dionigi è in certi casi troppo
succinto (perché non gli hanno dato più spazio?), ma preciso e
ricco di notazioni retoriche e stilistiche utilissime. Sì, questo
Lucrezio si può leggere, anche passata l'estate. Quando lo si è
letto intensamente succede poi che di tutta la grandiosa architettura
vi resti in mente una piccola immagine. Per me è quella della serpe
sgusciante che lascia la sua veste fra gli spini: nam saepe
videmus illorum spoliis vepris volitantibus auctas, “spesso,
infatti vediamo i roveti adornarsi delle sue spoglie oscillanti”.
“la Repubblica”, 29
agosto 1990
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