Roma, Corso d'Italia, 6 Novembre 1957. I funerali di Giuseppe Di Vittorio |
Salgo da Porta Pia, piano
e un poco svogliato. L’atmosfera è com’è ai margini degli
avvenimenti pubblici: tempestosa, senza colore e quasi senza suono.
Cominciano a fermarsi i primi autobus, le automobili, isteriche, qua
e là, protestano con angosciosi e brevi suoni di clacson. Guardo la
gente, che va verso il Corso d’Italia, come me, o che resta lì, a
Porta Pia: dei giovani che non distinguo bene si sono arrampicati sul
monumento al bersagliere, lasciando sotto il piedestallo una frotta
di motori. Ci sono soprattutto uomini anziani, operai e impiegati, e
molte donne, umili e non giovani.
C’è un vento magro di
autunno, con una luce settentrionale, bianca e confusa. E un grande
silenzio, che i rumori, attutiti e come laceri del traffico, rendono
più strano. Ormai, di qua e di là del Corso d’Italia, le ali
della folla sono fitte: nel centro della strada passano reparti di
polizia: se ne vanno come inesistenti. Non c’è inimicizia tra loro
e la folla. Tutto pare come sospeso, rimandato: anche io mi ritrovo
solo con gli occhi, e come senza cuore, in pura attesa. Ma intanto
attraverso gli occhi, il cuore si riempie.
Non ho mai visto gente
così, a Roma. Mi sembra di essere in un’altra città.
Il Corso d’Italia è in
curva, sotto le mura: e la folla che si assiepa ai margini è
sconfinata. Un vecchietto si guarda intorno, intimidito, e dice a un
suo compagno, che gli è accanto silenzioso: - Vengono spontanei... -
E guarda, umile, la folla degli uguali a lui. Vado ancora un poco
avanti, sul largo marciapiede. Come vedo uno spiraglio, mi fermo,
sotto un albero, mezzo spoglio, ormai, ma ancora pieno dell’estate
romana che non vuol morire mai. Due uomini, non due ragazzi, vi si
sono arrampicati, e stanno a cavalcioni dei rami in silenzio, con
sotto, appoggiate al tronco, le loro biciclette. Passa di lì un
giovanotto, un baldo giovanotto della campagna, e, col suo accento
greve, avvicinandosi all’albero e guardando in alto pieno di
speranza, dice: — Compagno, me dai na mano? - Uno dei due
sull’albero, in silenzio, piano piano, lo aiuta a salire. Davanti a
me ci sono quattro o cinque uomini sui quaranta o cinquant’anni,
operai, qualcuno con la moglie, che se ne sta un po’ in disparte,
raccolta, quasi i funerali di Di Vittorio fossero una cosa che
riguardasse soprattutto gli uomini.
Cominciano in silenzio ad
avvicinarsi le corone: una folla che passa attraverso la folla,
sterminate l'una e l’altra.
Migliaia e migliaia di
uomini e di donne, quasi tutti vestiti con abiti che non sono di
lavoro, ma neanche quelli buoni, della festa: gli abiti che indossano
la sera, dopo essersi lavati dall’unto o dal fumo, per scendere in
strada, sulla piazzetta. Non si vedono stracci, né i maglioni o i
calzoni dell’eleganza romana della periferia. Tutti hanno faccie
forti oneste, cotte dalla fatica e dagli stenti. Per me, è la prima
volta che Roma si presenta sotto questa luce.
Rovesciati qui, dal
silenzio che ne avvolge le esistenze, che pure sono la parte più
grande della città, umilmente dimostrano quale sia la forza della
coscienza. Dimostrano che la storia non ha mai soste. Il romano
anarchico, scettico, scioperato, leggero ha già acquistato questo
volto, questa durezza, questa umile certezza. Io non so dire quanta
parte abbia avuto, in questa evoluzione, l’uomo il cui corpo viene
portato oggi al cimitero. Penso grandissima, se tutti questi uomini
lo sentono con tanto spontaneo e sconcertante affetto. Penso che
certo non c’è bisogno che nessuno glielo dica, che hanno perduto
un fratello: tanto sono pieni di muta, disperata gratitudine.
Passa la banda, passano
altre corone, a decine e decine, portate da operai, operaie, ragazzi.
Ecco il feretro: molte
braccia col pugno chiuso si tendono a salutare Di Vittorio, in un
silenzio pieno come di un interno, accorante frastuono. Anche gli
uomini che sono davanti a me, a uno a uno, alzano il braccio, a
fatica, come se il pugno dovesse reggere un peso insopportabile, e
restano cosi, con quel braccio teso in avanti, quasi ad afferrare, a
trattenere qualcosa che loro stessi non sanno, una vita di lotta e di
lavoro, la loro vita e quella del compagno che se ne va.
Guardo quelle schiene un
po’ deformate dalla fatica, sotto i panni quasi festivi, quelle
spalle massicce, quei colli nodosi; sono uomini induriti da una
infanzia abbandonata a se stessa, da un precoce lavoro, dalle
continue difficoltà del sopravvivere, dalla rozzezza di un’esistenza
ridotta al puro pratico, e spesso solo all’animale, dalla
corruzione dei quartieri dove vivono. Incalliti dappertutto. Ma come
il feretro è appena passato, e le braccia tese s’abbassano, vedo
dal loro atteggiamento che qualcosa accade dentro di loro. Uno,
davanti a me, piega un poco la testa da una parte: vedo la guancia
lunga, nera di barba e il pomello rosso. La pelle gli si contrae,
come in uno spasimo: piange, come un bambino. Guardo anche gli altri.
Piangono, con una smorfia di dolore disperato. Non si curano né di
nascondere né di asciugare le lacrime di cui hanno pieni gli occhi.
Da «Vie Nuove»,
16/11/1957, in Storie della città di Dio. Racconti e cronache
romane 1950-1966, Einaudi, 1995
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