Chagall, Pace ai tuguri, guerra ai palazzi (1917) |
Non vi è alcun legame
logico o necessario tra le avanguardie artistiche e culturali europee
- il termine entrò in uso attorno al 1880 - e i partiti di estrema
sinistra del XIX e del XX secolo, sebbene entrambi si considerassero
rappresentativi del «progresso» e della «modernità», ed entrambi
fossero transnazionali per portata e ambizioni. Negli anni Ottanta e
Novanta dell’Ottocento, i nuovi socialdemocratici (generalmente
marxisti) e la sinistra radicale guardavano con simpatia ai movimenti
artistici d’avanguardia: naturalismo, simbolismo, arts and
crafts, persino il postimpressionismo. In compenso, questi
artisti erano coinvolti in dichiarazioni di tipo sociale o anche
politico per la loro comunione d’idee con le fazioni che si
dedicavano ai poveri e agli oppressi. Ciò valeva anche per artisti
affermati come Sir Hubert Herkomer (In sciopero, 1891), o,
come, nella nuova esposizione, Il’ja Repin (17 ottobre 1905). In
Russia, gli artisti del movimento «mondo dell’arte» probabilmente
rappresentavano una fase analoga dell’avanguardia prima del
trasferimento di Djagilev in Occidente. Gli anni 1905-1907
dimostrarono l’impegno politico del celebre ritrattista Serov.
Nel decennio che
precedette il 1914, l’ascesa di avanguardie nuove e radicalmente
sovversive a Parigi, Monaco e nelle capitali asburgiche portò a una
divisione dei rami artistici e politici di modernità e rivoluzione.
Di lì a poco, a queste esperienze si unì, in Russia, una componente
singolarmente ampia di artiste donne, ben rappresentate nella nuova
esposizione. Sotto etichette che spesso mutavano e si sovrapponevano
- cubisti, futuristi, cubofuturisti, suprematisti, eccetera - questi
innovatori radicali, sovversivi nella loro visione dell arte, o
cosmici e mistici (in Russia) nelle loro aspirazioni, non erano
interessati alla politica della sinistra e avevano scarsi contatti
con essa. Dopo il 1910, persino il giovane poeta e drammaturgo
bolscevico Majakovskij si ritirò per un po’ dalla politica. Se gli
artisti d’avanguardia prima del 1914 leggevano qualche pensatore,
non si trattava di Marx, ma del filosofo Nietzsche, le cui
implicazioni politiche privilegiavano le élite e il «superuomo»
piuttosto che le masse. Soltanto uno degli artisti designati per
posti di responsabilità dal nuovo governo sovietico nel 1917 sembra
essere stato membro di un qualche partito socialista: il bundista
David Shterenberg (1881-1948).
Dal canto loro, i
socialisti diffidavano delle incomprensibili innovazioni delle nuove
avanguardie, essendo impegnati a portare le arti - attraverso le
quali in genere imparavano a comprendere l’alta cultura della
borghesia colta - alle masse lavoratrici. Ne facevano parte al
massimo una o due figure di spicco, come il giornalista bolscevico
Anatolij Lunacarskij, che, sebbene a loro volta scettiche, erano
sufficientemente sensibili alle correnti intellettuali e artistiche
dell’epoca per riconoscere che anche gli artisti rivoluzionari
apolitici o antipolitici avrebbero potuto avere qualche influenza sul
futuro.
Tra il 1917 e il 1922, le
avanguardie dell’Europa centrale e orientale, destinate a formare
una fitta rete transnazionale, confluirono in massa nella sinistra
rivoluzionaria. Questo fu forse più sorprendente in Germania che in
Russia, un Titanic a bordo del quale le persone erano consapevoli di
aspettare l’iceberg della rivoluzione. A differenza che in Germania
e nei territori asburgici, la repulsione per la Grande guerra non
sembra essere stata un elemento fondamentale in Russia. Due icone
dell’avanguardia, il poeta Vladimir Majakovskij e il pittore
Kazimir Malevic, nel 1914 avevano già prodotto popolari giornali
patriottici. Fu la rivoluzione stessa a ispirarli e politicizzarli,
come in Germania e in Ungheria. Diede loro anche una visibilità
internazionale che fece della Russia il centro del modernismo fino
agli anni Trenta.
La rivoluzione mise le
nuove avanguardie russe in una posizione unica di potere e influenza
sotto l’occhio benevolo del nuovo commissario del popolo per
l’Istruzione, Anatolij Lunacarskij. Il loro campo d’azione era
limitato soltanto dall’insistenza del regime a conservare l’eredità
e le istituzioni dell’alta cultura, che gran parte di esse, in
particolare i futuristi, avrebbero voluto cancellare. (Nel 1921, il
Bol’soj rischiò di chiudere.)
Altri artisti erano impegnati nei
soviet. («Non ci sono degli antifuturisti affidabili?» chiese
Lenin.) Chagall, Malevic e Lissitskij dirigevano scuole d’arte,
l’architetto Vladimir Tatlin e il regista teatrale Vsevolod
Mejerchol’d i dipartimenti ministeriali per le arti. Il passato era
morto e sepolto. L’arte e la società potevano essere rifatte da
zero. Tutto sembrava possibile. Creatore e pubblico non più separati
o separabili, ma unificati mediante la radicale trasformazione di
entrambi: questo sogno ora poteva essere realizzato ogni giorno in
strada, nelle piazze cittadine, da uomini e donne che erano a loro
volta creatori, come dimostrato dai film sovietici, dove gli attori
professionisti, inizialmente, erano visti con sospetto. Lo scrittore
e critico d’avanguardia Osip Brik racchiuse tutto questo in una
frase: «Chiunque dovrebbe essere un artista. Qualunque cosa può
diventare arte».
I «futuristi», termine
altamente generico, e coloro che in seguito si definirono
costruttivisti (Tatlin, Rodcenko, Popova, Stepanova, El Lissitskij,
Naum Gabo, Pevsner) perseguirono questo fine con la massima coerenza.
È soprattutto grazie a questo gruppo, che esercitò la sua influenza
anche nel cinema (Dziga Vertov e Éjzenstejn) e nel teatro
(Mejerchol’d), e alle idee architettoniche di Tatlin, che
l’avanguardia russa ebbe uno straordinario impatto sul resto del
mondo. Fu la componente principale dei movimenti russo-tedeschi,
strettamente intrecciati tra loro e destinati a influire a livello
internazionale sulle arti moderne tra il 1917 e la Guerra fredda.
Il lascito di queste idee
radicali continua a far parte del know-how fondamentale di chiunque
si occupi di montaggio cinematografico, layout, fotografia e design.
Ed è quasi impossibile non essere entusiasti dei loro trionfi: il
progettato monumento all’Internazionale comunista di Tatlin, il
«cuneo rosso» di El Lissitskij, i montaggi e le fotografie di
Rodcenko, La corazzata Potèmkin di Éjzenstejn.
Ben poco del loro lavoro
sopravvisse nei primi anni dopo la rivoluzione. Non c’era nessun
edificio. Da persona pragmatica quale era, Lenin riconobbe il
potenziale propagandistico dei film, ma il blocco in pratica impedì
qualsiasi fornitura di pellicola vergine nel territorio
russo-sovietico durante la guerra civile, anche se gli studenti del
nuovo Istituto cinematografico di Stato di Mosca, fondato nel 1919 e
diretto da Lev Kulesov, affinavano le loro capacità nella nuova arte
del montaggio tagliando e ritagliando il contenuto delle «pizze»
rimaste. Un decreto immediato, nel marzo 1918, ordinò lo
smantellamento dei monumenti del vecchio regime e la loro
sostituzione con statue di personaggi ispiratori della rivoluzione e
fautori del progresso in ogni parte del mondo, a beneficio del popolo
illetterato. Ne vennero erette circa una quarantina a Mosca e
Pietrogrado, ma poiché furono costruite in fretta, perlopiù in
gesso, sono poche quelle che si sono conservate. Forse questa è
stata una fortuna.
La stessa avanguardia si
gettò con entusiasmo nell’arte di strada, dipingendo slogan e
immagini sui muri e nelle piazze, nelle stazioni ferroviarie e sui
«treni sempre più veloci», come pure fornendo materiale per le
celebrazioni della rivoluzione. Queste ultime erano per loro stessa
natura temporanee, tuttavia quella organizzata a Vitebsk da Marc
Chagall venne giudicata non abbastanza politica; un’altra suscitò
invece le proteste di Lenin, poiché gli alberi fuori del Cremlino
erano stati colorati di blu e la vernice era difficile da rimuovere.
Hanno lasciato poche tracce di sé, a parte qualche fotografia e
alcuni sbalorditivi progetti per tribune trasportabili per oratori,
chioschi, installazioni per cerimonie e simili, inclusa una
raffigurazione della famosa torre del Comintern di Tatlin. Durante la
guerra civile, con ogni probabilità gli unici progetti creativi
legati alle arti visive pienamente realizzati furono nel campo
teatrale, che proseguirono nel corso degli anni, ma l’esibizione
sul palcoscenico è di per sé evanescente, anche se le scenografie
di tanto in tanto sono sopravvissute.
Dopo la fine della guerra
civile, la Nuova politica economica degli anni 1921-28, più
favorevole al mercato, diede ai nuovi artisti maggiori opportunità
di realizzare i loro progetti, spostando l’avanguardia da una
posizione utopistica a una più orientata alla pratica, benché al
prezzo di una crescente frammentazione. Gli oltranzisti del Partito
comunista, insistendo su una Proletkult interamente appannaggio della
classe operaia, attaccarono l’avanguardia. Al suo interno, i
paladini dell’arte spiritualmente pura e totalmente rivoluzionaria,
come Naum Gabo e Anton Pevsner, denunciarono i «produttivisti», che
volevano un’arte applicata alla produzione industriale e la fine
della pittura su cavalletto. Ciò condusse a ulteriori conflitti
personali e professionali, come quelli che portarono
all’estromissione di Chagall e Kandinskij dalla scuola di Vitebsk,
a tutto vantaggio di Malevic.
I contatti tra la Russia
sovietica e l’Occidente - perlopiù passando per la Germania - si
moltiplicarono, e per qualche anno diversi artisti dell’avanguardia
si spostarono attraversando senza problemi le frontiere dell’Europa.
Alcuni (Kandinskij, Chagall, Julius Exter) finirono per restare in
Occidente con gli esuli prerivoluzionari riuniti attorno a Djagilev,
come la Goncarova e Larionov. Nel complesso, le più importanti e
durature opere creative dell’avanguardia russa vennero realizzate a
metà degli anni Venti, in particolare i primi successi del nuovo
cinema del «montaggio», il Cineocchio di Dziga Vertov e La
corazzata Potèmkin di Èjzenstejn, i ritratti fotografici di
Rodcenko e alcuni progetti architettonici (mai realizzati).
Fino ai tardi anni Venti,
non ci furono altri seri attacchi all’avanguardia, sebbene il
Partito comunista sovietico la disapprovasse, perché, tra le altre
ragioni, il richiamo che aveva sulle «masse» era indiscutibilmente
trascurabile. Era protetta non solo da un uomo di larghe vedute come
Lunacarskij, che rimase in carica come commissario per l’Istruzione
dal 1917 al 1929, e da colti leader bolscevichi come Trotzkij e
Bucharin, ma anche dall’esigenza da parte del nuovo regime
sovietico di placare gli indispensabili «specialisti borghesi»,
l’intellighenzia colta ma per larga parte non convertita,
che inoltre costituivano il pubblico essenziale delle arti, incluse
quelle d’avanguardia. Tra il 1929 e il 1935, Stalin, lasciando loro
i privilegi acquisiti fino a quel momento, li costrinse ad accettare
una totale sottomissione al potere. Questa spietata rivoluzione
culturale segnò la fine dell’avanguardia del 1917; il realismo
socialista divenne obbligatorio. Sterenberg e Malevic scelsero di
tacere; Tatlin, bandito dalle esposizioni, si ritirò nel teatro;
Lissitskij e Rodcenko trovarono rifugio nel fotogiornale «Urss in
costruzione»; Dziga Vertov finì per fare poco più che il tecnico
di montaggio di cinegiornali. A differenza di gran parte dei
bolscevichi del 1917, che avevano dato loro una chance, gli artisti
dell’avanguardia visiva perlopiù sopravvissero al terrore
staliniano, ma le loro opere, sepolte nelle collezioni private e nei
musei russi, sembravano dimenticate.
E tuttavia, ancora oggi
noi tutti viviamo in un mondo visivo per larga parte concepito da
loro nei dieci anni successivi alla rivoluzione.
Pubblicato per la prima
volta con il titolo Changing of the Avant-Garde, in «Royal
Academy of Arts Magazine», n. 97, 2007. Ora in La fine della cultura. Saggi su un secolo in crisi di identità, BUR, 2013
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