9.9.18

Le intolleranze linguistiche italiane: falsi eufemismi e vero razzismo (Guido Vitiello)


L’idea che le cose brutte diventino meno brutte se le ribattezziamo con un nome grazioso, architrave del politically correct americano, non ha attecchito più di tanto in Europa. O almeno così sosteneva Robert Hughes in un libro dei primi anni Novanta, La cultura del piagnisteo: «In Francia nessuno ha pensato di ribattezzare Pipino il Breve Pépin le Verticalement Défié, né in Spagna i nani di Velázquez danno segno di diventare las gentes pequeñas». Hughes credeva che il politicamente corretto fosse figlio di un’abitudine tutta americana alla circonlocuzione cortese. Di certo sottovalutava la nostra lunga consuetudine con le caritatevoli astruserie dell’eufemismo burocratico, dove il povero diventa impossidente e il malato cronico lungo degente. E forse avrebbe potuto dare un’occhiata a un vecchio film di Marco Bellocchio, Sbatti il mostro in prima pagina, in cui Gian Maria Volonté, direttore di un giornale benpensante, impartisce a un suo redattore una lezione di linguaggio giornalistico, smontando parola per parola il titolo che questi aveva dato al suo pezzo: «Disperato gesto di un disoccupato. Si brucia vivo padre di cinque figli». Il disperato si addolcisce in drammatico, il disoccupato in rimasto senza lavoro e il padre di cinque figli — siccome il poveretto è calabrese — diventa semplicemente un immigrato, «una parola sola che contiene implicitamente il disoccupato e il padre di cinque figli ma dà anche un’informazione in più.
Immigrato è una delle parole che il linguista Federico Faloppa, da anni studioso dell’intolleranza che si annida nel linguaggio, prende in esame nel libro Razzisti a parole (per tacer dei fatti), pubblicato da Laterza. Non che immigrato sia di per sé una parola razzista, beninteso. Ma usata pigramente dalla stampa o nel parlare comune, come quando chiamiamo alunni immigrati dei bambini nati in Italia, si porta dietro un sottinteso sgradevole, che non è di forma ma di sostanza: l’idea che una condizione per definizione transitoria — la migrazione, lo spostarsi da un luogo all’altro — diventi un marchio indelebile che si trasmette tra le generazioni. Lo stesso vale per clandestino, un aggettivo lentamente trasformato in sostantivo, quasi a designare una seconda natura, che nel linguaggio giornalistico si associa a tutto un lessico da invasioni barbariche: orde, eserciti, sbarchi, ondate. Ogni parola è come un fazzoletto sporgente dal cilindro di un mago: tirane un lembo e ne uscirà fuori un mondo. Etnico, per esempio. Parola dalla lunga storia che s’intreccia con il colonialismo e lo studio dei popoli extraeuropei, e che finisce per designare vezzosamente, nell’uso comune, ristoranti e mode vestiarie; oppure, al contrario, scontri e pulizie. Che cosa indichi esattamente non è chiaro, ma forse ci risentiremmo se un ristorante italiano fosse definito etnico (mica siamo africani) o se l’aggettivo fosse speso per l’ambizione dei nostri padani a separarsi dagli etruschi.
Faloppa cita studi e ricerche, analizza a campione articoli di giornale, conversazioni informali su Internet, dichiarazioni di politici, documenti governativi. Non è un fanatico, sa bene che dal razzismo delle parole non si passa necessariamente alle vie di fatto. Sa anche, però, che un ponte c’è. «Studiate a memoria il Dizionario dei sinonimi e vi assicuro l’impunità per i nove decimi delle bricconate, che l’uomo può fare in questa valle d’ipocrisia», scriveva più di cent’anni fa Paolo Mantegazza. E così, la creazione di classi separate per i figli di immigrati diventa, nella mozione proposta alla Camera nel 2008 dal leghista Roberto Cota, «discriminazione transitoria positiva». Altre volte Faloppa è costretto a constatare che il galateo del discorso pubblico è andato a farsi benedire, e che nessuno si stupisce più di tanto se un editoriale di Vittorio Feltri sui fatti di Rosarno porta il titolo «Stavolta hanno ragione i negri». A pensarci, è la via anomala al «politicamente scorretto» di un Paese che non ha conosciuto la correttezza politica se non nella forma dell’evasività democristiana. Poi, quando abbiamo preso a scimmiottare la moda americana, i fronti si sono divisi: da un lato l’isteria linguistica di certo bigottismo progressista, dall’altro le intemperanze di quanti hanno colto al balzo il pretesto per dare sfogo alla loro beceraggine, recuperando il piacere proibito di urlare negri, froci e terroni (o anche, tra certi qualunquisti abusivamente accampati a sinistra, nani, ciccioni…).
Ma guai a sopravvalutare il potere delle parole. Perché, diceva ancora Hughes, «i teppisti che una volta pestavano i froci adesso pestano i gay».

La lettura – Corriere della sera, 11 dicembre 2011

1 commento:

Anonimo ha detto...

Des plus belles histoires et actualit?s qui buzzent.

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