Una rievocazione che
suscita momenti di dissenso per l'evidente provocatorietà dei
ragionamenti, ma che pure apre contraddizioni feconde nel nostro modo
di guardare al passato e di attualizzarlo. Da leggere. (S.L.L.)
Il culto della violenza e delle armi in un disegno rievocativo della fondazione dei Fasci di combattimento (1919),tipico della stampa neofascista. |
Cent’anni dalla
fondazione dei Fasci di combattimento: Milano, piazza
San Sepolcro, 23 marzo 1919. Il fascismo, un tipico prodotto di
successo del Made in Italy; forse la parola italiana più nota
all’estero, insieme a mafia e pizza. Ipocrisia e sangue. Va al
potere con le stragi di democratici e sindacalisti, con gli incendi,
coi saccheggi; ma le condanne a morte che pronuncia col Tribunale
speciale, quelle eseguite, sono poche decine. Lupara bianca e lupara
nera. Al fascismo bastano sette anni dal suo primo governo per
sforbiciare un pezzo della capitale e consegnarlo al papato, e pochi
anni in più per legare le sorti del paese alla Germania con
risultati disastrosi. Paradosso tutto nostro, quel suicidio differito
del Risorgimento passa per patriottico.
Tre quarti di secolo
dall’attacco partigiano in via Rasella (non
per caso, la Resistenza scelse il 23 marzo) e dalle Fosse
Ardeatine, il giorno dopo. L’attacco lo fecero i Gap,
Gruppi di azione patriottica; patria non sapeva di populismo e non
metteva in imbarazzo. Pochi giorni prima, il 10 marzo e sempre a
Roma, per l’anniversario della morte di Mazzini i gappisti avevano
disperso a revolverate i fascisti, che in via Tomacelli sfilavano
contro il re e per la repubblica, ma quella finta di Mussolini.
Brutto colpo, per i repubblichini, che sul «Messaggero»
commentarono: «Purtroppo i soliti elementi perturbatori attentano
alla serena compostezza del corteo». I comunisti sparano sui
fascisti per impedire che si fingano mazziniani. Da approfondire, il
senso di quell’accademia a mano armata.
La memoria è rimasta
prigioniera del paradigma vittimario delle Ardeatine, crimine sepolto
nel monumentalismo; l’azione ben riuscita di via Rasella non ha
avuto la considerazione che merita, anzi è stata accusata di tutto:
i partigiani che volevano l’eccidio, che dovevano consegnarsi ai
tedeschi, che ignorarono moniti e comunicati. Qualche anno fa è
stato pubblicato e demistificato il volantino fascista che fabbricò
menzogne poco dopo il massacro (una manovra disinformativa persino
più zelante di quelle tedesche); ma le smentite razionali non
bastano, l’accusa contro la Resistenza risponde a un bisogno
emozionale. Ha combattuto, ha spezzato l’inerzia, e nella città
santa: è colpevole.
Mezzo secolo dalla strage
di piazza Fontana, a Milano. Nel 1969 corre lo sviluppo
economico, sono in piena maturazione l’industrializzazione e
l’urbanizzazione, si è affacciata la rivoluzione sessuale, si
progettano il divorzio, il nuovo diritto di famiglia, lo Statuto dei
lavoratori. Si reclamano riforme dei codici, della scuola,
dell’università. Una parte del paese vuole entrare nella
modernità, un’altra frena: vi entrerà zoppicando.
Piazza Fontana è una
strage indiscriminata, la prima di tipo bellico dopo la guerra; le
altre, da Portella della Ginestra a Reggio Emilia, hanno un margine
di selezione delle vittime. Nel 1969 si colpisce a caso: il bersaglio
grosso non è in quei morti, è il popolo. Insieme c’è la violenza
poliziesca, la macchinazione che mira all’anello debole della
contestazione: gli anarchici, estranei al circuito politico del
blocco al governo e di quello all’opposizione, riottosi alla
retorica del costituzionalismo ingessato, dissonanti dal reducismo
ciellenista. Però la morte di Giuseppe Pinelli, un po’ simmetrica
e un po’ decentrata rispetto alla bomba, colpisce mirando ed è un
monito per tutti, fitta di segni che parlano di allineamento, di
ubbidienza non solo governativa. L’uomo che quel giorno va
tranquillo coi poliziotti in questura, fiducioso in un chiarimento,
ne uscirà cadavere dopo un interrogatorio che viola ogni norma
procedurale.
In carcere, additato come
il mostro, finirà un altro anarchico innocente, Pietro Valpreda; ci
vorranno anni e una modifica legislativa per tirarlo fuori. Ci si
renderà conto, finalmente, che le leggi sono ancora quelle fasciste
e che un detenuto può sparire senza garanzie. E insieme c’è la
giustizia, così inadeguata che alla verità processuale su quel 1969
mancano ancora pagine importanti. La spiegazione corrente su Pinelli
sarà un ossimoro osceno, il malore attivo, in cui – come nei
Promessi sposi, con le febbri pestilenziali – l’indicibile si
sposta sull’aggettivo. Qualcosa si muove, qualcuno fa, insomma c’è
un che di attivo, in quella morte. Ma il sostantivo è incolpevole e
sa di vecchio, di malfermo: il malore, meno grave della malattia, più
svenevole di un dolorino. Pinelli era quarantenne. Da rivedere, sulla
giustizia, il film Processo politico di Francesco Leonetti.
Un quarto di secolo dalla
rifrequentazione di un tremendo archivio segreto. Fra il 1943 e il
1945 gli occupanti tedeschi e i collaborazionisti fascisti uccidono
italiani in una quantità mai davvero calcolata: probabilmente almeno
trentamila. Nel 1945 si decide di concentrare indagini e prove a
Roma, negli uffici della giustizia militare, per far meglio
chiarezza. Negli anni immediatamente successivi i fascicoli sono
usati per celebrare pochissimi processi, poi sono lasciati alla
polvere, nel silenzio di tutte le strutture partitiche, politiche,
sindacali, combattentistiche. Molti sanno, tutti tacciono, qualcuno
manovra. È uno scandalo senza paragoni nell’Italia postunitaria,
forse nella storia europea: un paese occulta le prove di due anni di
massacro dei suoi cittadini, di ogni età e condizione, compresi i
bambini, i militari fedeli al governo legittimo, i partigiani, il
clero, gli ebrei.
Un giornalista
battagliero, Franco Giustolisi, chiamerà questa cosa orribile
Armadio della vergogna, un’espressione fulminante.
Dopo che l’Armadio è stato riaperto si muovono commissioni
d’inchiesta, si scrivono relazioni, eppure restano oscure sia le
implicazioni di un’inerzia così lunga, sia le modalità
dell’improvvisa rifrequentazione dell’archivio. Avviene, appunto,
nel 1994: cioè dopo il Trattato di Maastricht e dopo la trattativa
Stato-mafia con la notte in odor di golpe denunciata da Ciampi, e
dopo l’assassinio di Falcone e Borsellino. Soprattutto, a breve
distanza dalla caduta del Muro di Berlino e dalla riunificazione
tedesca, e subito dopo l’arrivo di Berlusconi al governo. In
quell’anno i Modena City Ramblers cantano Quarant’anni: «Ho
visto bombe di Stato scoppiare nelle piazze e anarchici distratti
cadere giù dalle finestre. Ho venduto il mio didietro ad un amico
americano. Ho massacrato Borsellino e tutti gli altri. Ho protetto
trafficanti e figli di puttana. Ma ho un armadio pieno d’oro, di
tangenti e di mazzette, di armi e munizioni, di scheletri e di
schifezze».
La rifrequentazione non
ha neppure una data sicura. Di altri misteri italiani si conosce
almeno il giorno; nel 1994 l’Armadio ricompare senza un verbale,
senza una fotografia. Negli anni che seguono si celebrano una ventina
di dibattimenti, l’ultimo termina nel 2015; va in prigione solo un
sottufficiale. La Germania non paga nessun risarcimento; anzi, alla
Corte internazionale dell’Aia fa condannare l’Italia per lesa
maestà, perché uno studio legale ha ipotecato una villa tedesca a
Como. Attenzione. La posta in gioco non è solo di crediti italiani e
di una villa: con quella sentenza la Corte, cioè la voce giudiziaria
dell’Onu, dice che gli Stati non possono mai essere condannati a
pagare, neppure per crimini di guerra o contro l’umanità. Vale per
il passato e per il futuro, per Sant’Anna di Stazzema e per la
Siria. È il 2012: la crisi economica dilaga, terrorismo e
destabilizzazioni fanno il doppio gioco sul sangue di interi paesi, e
Wikileaks, col Cablegate e coi documenti sull’Afghanistan e l’Iraq,
ha svelato intrighi e massacri. Ecco che sul tavolo anatomico dei
giuristi, all’Aia, le stragi di italiani dal 1943 al 1945 sono
dissezionate e manipolate per fabbricare un salvacondotto legale a
quelle future, ovunque. Gli apprendisti stregoni cuciono i lutti
della Seconda guerra mondiale col fil di ferro del formalismo; ne
esce un mostro alla Frankenstein, servizievole alla ragion di Stato.
Sangue assolve sangue.
Settant’anni dalla
fondazione della Nato. Voluta contro un blocco
politico-economico che non esiste più da un trentennio, è
sopravvissuta al suo nemico e continua a condizionare il presente. I
responsabili di crimini nazifascisti commessi in guerra sono stati
protetti e adoperati; la strategia della tensione è stata l’area
in cui la Nato ha incontrato il nazifascismo bellico e la protezione
postbellica della sua impunità, cioè l’ombra silenziosa
dell’Armadio della vergogna.
Lo stragismo nazista e
fascista, sempre antipopolare, sempre collaborazionista, ha
disseminato di ingiustizia e reticenza un secolo segnandone le tappe.
Durante la guerra è stato usato per fabbricare il complesso di colpa
per la Resistenza, la squalifica profonda degli italiani, e per
gettare le basi di un senso di inferiorità contrario al
Risorgimento, al socialismo e alla democrazia; da rileggere, le
pagine di Giuseppe Dossetti su Marzabotto come delitto castale. Dopo
la guerra ha stravolto l’ingresso del paese nella modernità,
costruendo col metodo terroristico la minaccia del colpo di Stato, lo
scacco alle conquiste sindacali e democratiche, la difesa a oltranza
dei privilegi di classe. Dopo la dissoluzione del blocco socialista e
la riunificazione della Germania, i contraccolpi di quel sangue e
quei silenzi hanno continuato a pesare. I segreti della strategia
della tensione e l’impunità delle stragi nazifasciste in tempo di
guerra hanno ricevuto una protezione solida, dentro l’abitudine del
potere all’utilizzo indiscriminato della criminalità organizzata e
del fascismo; abiti intercambiabili, in Italia, e sempre con l’ornato
di una cultura prostituita alla distrazione. Da rivedere l’intervista
al regista (Orson Welles), in La ricotta di Pasolini: «Il
popolo più analfabeta, la borghesia più ignorante d’Europa». La
ricotta comincia col Vangelo di Marco: «Non esiste niente
di nascosto che non si debba manifestare; e niente accade
occultamente, ma perché si manifesti».
Ancora da sondare, i
rapporti fra le coperture dell’Armadio della vergogna e il
reimpiego del fascismo negli anni della conflittualità armata, come
le relazioni fra crimine, fascismo e affarismo – riciclaggio,
privatizzazione di beni pubblici, traffico di droga e armi – nella
prima metà degli anni Novanta, in concomitanza coi delitti più
vistosi (Falcone, Borsellino). Tutti da affrontare, i legami con
altri delitti che hanno segnato la situazione europea poco prima
della liquidazione del socialismo o nell’immediatezza (omicidi Olof
Palme, Alfred Herrhausen, Detlev Rohwedder).
Le stragi fasciste dal
1919 preparano la dittatura, che prepara i massacri sociali,
coloniali, bellici. Le stragi belliche, massacri dentro l’immane
massacro, sorreggono l’occupazione militare, la schiavizzazione, la
deportazione, il saccheggio, la repressione materiale e morale. Le
stragi della strategia postbellica orientano il cambiamento
dell’Italia in conformità alla spartizione del mondo in blocchi.
Le stragi del 1992-1993 chiudono quella stagione, mettendo a tacere
chi sa troppo e aprendo la strada a un nuovo quadro di potere, che
serve alla penetrazione economica nei paesi ex socialisti e alla
distruzione dell’originale socialdemocrazia italiana, coi suoi
specifici miti e pilastri (democristianesimo, eurocomunismo,
partecipazioni statali, banche pubbliche). Questo lunghissimo
sacrificio umano ha per costante l’eliminazione mirata di notabili
(uomini d’ordine antifascisti, politici onesti, sindacalisti
impegnati, intellettuali coraggiosi, magistrati scomodi) e il
massacro casuale, indiscriminato, contro il popolo, che la strategia
del sangue riduce a massa informe di carne.
Davvero, tanti
anniversari. Eppure, a leggerli insieme si capisce meglio. Un uomo
diritto che visse per amore, patria e poesia, e morì d’esilio in
povertà: «Non accuso la ragione di stato che vende come branchi di
pecore le nazioni: così fu sempre, e così sarà: piango la patria
mia, “Che mi fu tolta, e il modo ancor m’offende”». Ugo
Foscolo, Ultime lettere di Jacopo Ortis, 17 marzo.
Carmilla on-line, 25
aprile 2019
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