Nicola Cabibbo |
Nicola Cabibbo
(1935-2010) fu uno scienziato italiano che, a cavallo tra secolo XX e
XXI, diede un contributo importante alla “fisica delle particelle”.
Cattolico e, per un certo periodo, presidente dell'Accademia
Pontificia delle Scienze, si occupò più volte del rapporto tra
scienza e fede ed in particolare fu attratto dal “caso Galileo”,
anche in relazione della cosiddetta “riabilitazione” che in
quegli anni la Chiesa Cattolica, su impulso del papa polacco Karol
Wojtila, promuoveva.
L'articolo che segue,
pubblicato quasi esattamente 10 anni fa sul “Corriere”, è
secondo me reticente sulle questioni della libertà di pensiero, su
cui la Chiesa non ha ancora fatto passi avanti decisivi: non a caso
alle “scuse” sul caso Galilei corrispondono imbarazzi e silenzi
sul caso di Giordano Bruno, che quella libertà con più fervore e
coerenza rivendicò.
Ciò detto il testo mi
pare molto interessante e formula ipotesi di lavoro, che - da
“orecchiante” curioso senza specifiche competenze – mi
piacerebbe veder approfondite. La prima mi pare la sottolineatura del
carattere complessivamente “filosofico” dell'avventura
intellettuale galileiana; la seconda l'indicazione delle basi
filosofiche della persecuzione dei teologi contro Galileo (matematica
pitagorica e atomismo v/s formalismo aristotelico). In ogni caso una
lettura stimolante. (S.L.L.)
Quando nel 1610 si spostò
da Padova a Firenze presso la corte dei Medici, Galilei insisté per
ricevere il titolo di “Filosofo e Matematico primario” del
Granduca. Non solo Matematico, come Keplero presso la corte imperiale
di Praga, ma anche e anzitutto Filosofo. Questa richiesta è
fondamentale per capire la vastità del progetto galileiano: una
scienza che non si accontenta di esplorare e descrivere fenomeni ma
aspira a una comprensione totalizzante della natura. Un tale
programma diviene necessariamente una filosofia; alla sua base il
famoso passo de Il saggiatore (Feltrinelli) in cui Galilei
afferma che il grande libro della natura è scritto in caratteri
matematici. È dalla matematica che bisogna ripartire per capire il
mondo.
Gli sviluppi della
scienza e delle tecniche, rappresentati da scienziati come Nicola
Copernico o William Gilbert, o dai grandi scienziati-
artisti-ingegneri del Rinascimento italiano, da Leonardo a Guidobaldo
del Monte, non potevano essere inquadrati nella filosofia allora
dominante, quella di Aristotele. In Aristotele la natura era
descritta in termini di «forma» e «sostanza», concetti che non
permettono di andare oltre una discussione puramente qualitativa dei
fenomeni naturali. Il passaggio dal qualitativo al quantitativo
richiedeva una filosofia diversa, quella di Pitagora, secondo cui
tutto è numero.
Ancora oggi l’innegabile
successo della descrizione matematica della natura è fonte di
meraviglia. Quando nel 1960 Eugene Wigner, uno dei padri della
meccanica quantistica, scrisse un saggio, ormai divenuto un classico,
sulla Irragionevole efficacia della matematica nelle scienze
naturali dovette concludere che «we do not know why our theories
work so well», non sappiamo perché la matematica funzioni così
bene.
La nuova filosofia della
natura si scontrava quindi con quella dominante, ma anche con il
pensiero teologico che, tramite la scolastica, proprio nella
filosofia di Aristotele aveva trovato le sue fondamenta razionali.
Essere contro Aristotele
nel Seicento era estremamente rischioso. Come sappiamo, lo scontro
portò alla messa all’indice delle opere di Copernico nel 1616 e al
processo contro Galilei del 1633. Lo sviluppo delle conoscenze
scientifiche che si trasformava necessariamente in filosofia della
natura aveva gettato un forte sospetto di eresia su Galileo e i suoi
seguaci. Alla Chiesa mancò all’inizio del Seicento una personalità
del calibro intellettuale di un Tommaso d’Aquino, che sapesse
valutare correttamente l’impatto filosofico della nuova scienza, a
cominciare dalle scoperte astronomiche di Galilei del 1609.
Fondamento del metodo di Galilei è un’immagine del funzionamento
della natura in cui inquadrare i fenomeni particolari. Galilei è
atomista convinto, vede tutta la materia come composta da particelle
che si muovono nel vuoto, e questa immagine del mondo guida la sua
ricerca. L’atomismo fa da sfondo agli studi sul galleggiamento, è
centrale ne Il saggiatore, e ispira la discussione della
resistenza dei materiali nei Discorsi e dimostrazioni matematiche
intorno a due nuove scienze del 1637. Non soltanto il pitagorismo,
anche l’atomismo si scontra con Aristotele.
Come ha dimostrato Pietro
Redondi, nel suo Galileo eretico (Einaudi), l’atomismo di
Galilei giocò un ruolo non indifferente dietro le quinte del
processo del 1633. Galilei era convinto che tutta la materia, sia
sulla terra che nei corpi celesti, obbedisce alle stesse leggi. E
questa convinzione, confermata dalle sue scoperte astronomiche, lo
aveva portato al sistema copernicano, secondo cui la terra gira
intorno al sole e ruota su se stessa.
Un elemento essenziale
del metodo di Galilei consiste nel semplificare al massimo i fenomeni
che si desidera studiare, sfrondandoli per quanto possibile da
effetti secondari che oscurano il risultato cercato.
Per studiare la legge che
regola il moto dei corpi conviene concentrarsi su oggetti pesanti,
meno influenzati dalla resistenza dell’aria. E poi conviene
rallentare la velocità della caduta, studiando il rotolamento su un
piano inclinato. L’ultimo passo consiste nello studiare il moto di
un pendolo, che elimina l’attrito.
Affrontando lo stesso
problema da più punti di vista, in condizioni sperimentali diverse —
il moto di un proiettile, il rotolamento su un piano inclinato, il
pendolo — Galilei arriva a isolare il cuore del fenomeno, a
determinare le leggi del moto. I Discorsi e dimostrazioni
matematiche intorno a due nuove scienze contengono alcuni
bellissimi esempi di esperimenti mentali. Si tratta di uno strumento
del tutto originale, che è forse il massimo contributo di Galilei
allo sviluppo delle scienze: immaginare un esperimento, anche se non
facilmente realizzabile, il cui risultato è tuttavia evidente. Un
esempio tra tanti: se un oggetto si muove verso il basso, il suo moto
è accelerato, se si muove verso l’alto il moto è ritardato,
quindi Galileo può affermare che su un piano orizzontale l’oggetto
non sarebbe né accelerato né ritardato, ma si muoverebbe a velocità
costante. Tanto evidente è questa conclusione che non è necessario
eseguire l’esperimento. Anzi l’esperimento non riuscirebbe perché
non è possibile eliminare del tutto l’attrito, ma la conclusione
resta.
Esperimenti mentali di
questo tipo sono alla base della scoperta della gravitazione
universale di Newton — la Luna cade come una mela? — o della
teoria della gravità di Einstein — che cosa succede in un
ascensore in caduta libera?
La fertilità del lavoro
di Galileo per lo sviluppo delle scienze è impressionante, e si
sviluppa già nei decenni successivi alla sua scomparsa. Nelle
ricerche di Galilei troviamo i semi della scoperta del barometro di
Torricelli, o della legge della gravitazione universale di Newton.
Intorno al 1675 Giovanni
Cassini e il danese Ole Rømer, che studiavano un metodo proposto da
Galilei per la determinazione della longitudine, osservarono delle
irregolarità nel periodo di rotazione dei satelliti di Giove.
Ottennero così la prima misura della velocità della luce,
rispondendo a una precisa domanda posta da Galilei nei Discorsi.
È conoscendo la velocità della luce che James Bradley, studiando
l’aberrazione stellare, un piccolo spostamento della posizione
apparente delle stelle, poté trovare nel 1729 una dimostrazione del
moto della terra intorno al sole, quella dimostrazione che Galilei
aveva inutilmente cercato cent’anni prima.
“Corriere della sera”,
23 maggio 2009
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