Roma
In un articolo su
“Repubblica”, undici anni fa, Italo Calvino li immaginò "avvolti
in un unico mantello". Si trattava di Franco Fortini e Alberto
Asor Rosa, del quale l'autore delle Cosmicomiche stava
recensendo un saggio su quarant'anni di dibattito letterario in
Italia. Di questo sodalizio ideale con Fortini parliamo appunto con
Alberto Asor Rosa, ripercorrendo in sua compagnia l'itinerario che lo
scrittore, appena scomparso, ha compiuto nella cultura italiana. Asor
Rosa ne è stato un testimone attento, appassionato.
"Conobbi Fortini",
racconta, "nella redazione torinese dei Quaderni rossi.
Sarà stato il '60 o il '61. Il direttore, Raniero Panzieri, volle
far incontrare noi giovani collaboratori con lo scrittore toscano,
che era una voce ascoltata della cultura di sinistra. Il suo
scetticismo si scontrò subito con la nostra fiducia. Ci espose i
suoi dubbi sul particolare tipo di marxismo che orientava la rivista.
I Quaderni rossi rappresentavano infatti un unicum nella
sinistra italiana, allora inquadrata nel Pci e, in misura minore, nel
Psi. Noi volevamo riflettere sullo stato del conflitto sociale
italiano al di fuori degli schemi correnti. Fortini si mostrò
pessimista sul progetto".
Pessimismo e lucidità
sono infatti due specialità di Fortini. "Ci parve, quella
volta, un uomo segnato da sconfitte pesanti, a partire da quella del
Politecnico. Era più ortodosso di noi, meno sperimentale, più
legato ai testi fondamentali e 'datati' del marxismo, come ad esempio
Lukacs, una sua passione. Verso i Quaderni rossi mostrò dunque
simpatia, non certo identificazione". Non era facile,
d'altronde, che Fortini s'identificasse in pieno con qualche
posizione politica. Credo che il termine "eresia" sia il
più adatto a riassumerne il carattere. "Era un uomo di grandi
passioni e risentimenti. Una persona difficile. Litigò anche con
Panzieri, cui pure era per tanti versi legato. Lo accusava di
tatticismo. Ai tempi del Politecnico aveva litigato con Vittorini,
non sopportandone ciò che a lui sembrava la sua superficialità
illuministica. Non per questo, nel conflitto fra il direttore del
Politecnico e il Pci, si schierava con Togliatti. Anzi,
proprio il suo antistalinismo lo abilitava a dar torto a Vittorini
senza prestare il fianco ad equivoci".
Alberto Asor Rosa |
Fortini è stato
soprattutto un poeta? "Direi di sì. Non ha mai smesso di
pensare alla poesia come alla sua voce primaria. I suoi maestri sono
i surrealisti francesi, Bertolt Brecht e i grandi poeti italiani, sia
del Novecento che della tradizione classica. Ha studiato Tasso con
grande acutezza. Per certi versi era legato agli ermetici, di cui
spesso si faceva beffa. Si sentiva vicino, per esempio, a Mario Luzi,
alla sua poesia percorsa da messaggi universalistici. Un libro di
Fortini uscito nel 1959 s'intitola Poesia ed errore. Appunto:
la sua è una poesia che rischia l'errore per evitare il pericolo
opposto, cioè l'assolutezza conchiusa e completa. L'appello lanciato
dai suoi versi non è mai attuale. È sempre volutamente fuori tempo,
e quindi contro il tempo. La raccolta Foglio di via (1946)
portava già il segno della sua vocazione profetica e ribelle. Della
sua categoria del rifiuto".
I titoli di Fortini
Vi versava quella fervida
immaginazione epigrammatica che aveva fra l'altro sperimentato
nell'attività di copywriter pubblicitario, esercitata (a puro titolo
di "gagne-pain") per la Olivetti: ebbi occasione di
lavorare per alcuni anni con lui, in quegli uffici milanesi. Foglio
di via, Verifica dei poteri, Astuti come colombe,
Questioni di frontiera, Insistenze, tutti slogan che
contribuivano a designarlo come un insonne controllore della moralità
politica. Come addetto a un posto di blocco che non lasciava passare
tatticismi e bugie. "Sì, Fortini era un po' un guardiano. Per
fare un esempio, non sopportava gli infingimenti della letteratura
industriale, di moda nei primi anni Sessanta. Non riteneva
obbligatorio, per i letterati, scoprire le nuove realtà produttive.
Pensava che mettersi al passo con la realtà potesse nascondere
un'ipocrisia maggiore che il fingere di non vederla".
Come saggista, quali sono
i suoi libri più felici? "Ce ne sono di straordinari, a
cominciare da Dieci inverni che riassume in termini eloquenti
emozioni e pensieri della stagione 1945-55, gli anni della guerra
fredda. E poi il saggio sul "metellismo" (dal romanzo
Metello di Pratolini), tante pagine della Verifica dei
poteri e di Astuti come colombe. Scritti che contenevano
moniti a volte sferzanti, e che proclamavano l'indisponibilità del
loro autore a condividere tesi precostituite e ad appiattirvisi. In
questo, Fortini era una rarità. In pochi intellettuali ebrei ho
colto un rifiuto così radicale della cultura di origine. Le sue
obiezioni alla politica di Israele erano durissime".
Alle riviste cui
collaborava, Fortini offriva il suo contributo senza abbracciarne il
"credo". Così era stato, nei primi anni Quaranta, con
Letteratura. Così fu con Il Politecnico. Così con
Officina, Comunità, Il Contemporaneo.
Maggiore comunanza di idee ebbe, sempre negli anni Cinquanta, con la
rivista Ragionamenti di Roberto Guiducci. Diffidò del gruppo
'63, fiutandovi il tentativo - per lui esecrabile - di saldare
neoavanguardia e neocapitalismo. E giù anatemi in forma di slogan o
di imperativi. Come "rifiutare la stretta di mano" (ai
messaggeri culturali del "miracolo") o togliere fiducia ai
"rappresentanti di commercio della letteratura tecnologica".
"Come stupirsi? Quelli della neo-avanguardia facevano il
contrario di ciò che lui credeva giusto. Da un lato promuovevano
operazioni formali, e dall'altro si avviavano in gruppo alla
conquista del mercato".
Il catalogo delle sue
allergie era ampio. Proviamo ad estrarne qualche nome. "Considerava
Calvino un astuto stratega del proprio successo. In Eco vedeva un
sapiente inventore di formule. Di Cacciari non sopportava il vezzo di
civettare con Nietzsche e il pensiero negativo".
C'è un capitolo
importante: Fortini e il Sessantotto. Leggendo soprattutto i Quaderni
piacentini si nota il suo passaggio da un originario entusiasmo a
una delusione definitiva. "Il suo approccio iniziale al
movimento dei giovani fu molto forte. Durante una manifestazione
fiorentina per il Vietnam - sarà stato il 1966 - Fortini pronunziò
un discorso in versi che ebbe molta risonanza fra i militanti. Vi si
stabiliva una stretta relazione fra le lotte dei vietcong e le
rivendicazioni operaie in Occidente: un'equazione destinata a entrare
nel senso comune giovanile. Molto meno fervida fu poi la sua
partecipazione allo sviluppo concreto del movimento. Non amava
protagonismi di tipo pratico, non accettava di atteggiarsi a 'leader
anziano' . I suoi rapporti con quell'ambiente si attenuarono man mano
che il Sessantotto si burocratizzò e frammentò in tanti piccoli
gruppi".
Poi c'è stato il Fortini
professore... "Andato in cattedra dopo i cinquant' anni, ha
assunto questo lavoro con serietà. Docente a Siena, non ha mai
cercato di avvicinarsi a Milano dov'era sempre vissuto. Amava la
didattica. La divulgazione lo appassionava. Ha prodotto, negli anni
di Siena, interessanti materiali di manualistica letteraria".
Ritornando all'immagine
di Calvino, quali pensieri riuniva voi due sotto un unico mantello?
"Ho sempre ammirato l'inflessibilità delle sue posizioni. Ho
discusso invece il ruolo, che lui affidava alla poesia, di parlare a
nome di tutti e di protendersi verso il futuro come unica speranza
residua. Lo spiegai nel 1968 in un saggio dal titolo L'uomo, il
poeta, centrato sulla sua figura. Fortini ne soffrì. Penso
tuttavia che il nostro legame si sia consolidato negli anni. Ci siamo
trovati accomunati in una solitudine crescente man mano che vedevamo
compromesse le possibilità di un'evoluzione positiva della cultura
di sinistra. Eravamo più distanti mentre lottavamo che nel momento
in cui siamo stati sconfitti".
“la Repubblica”, 29
novembre 1994
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