Il testo che segue è
solo in apparenza una recensione. Lo è in quanto trae occasione dal
primo volume della autobiografia di Altiero Spinelli, una figura
affascinante e complessa, ma può definirsi un “ritratto”, visto
che il suo autore, Giovanni Ferrara, insigne costituzionalista di
orientamento liberaldemocratico con una forte passione civile (lo
ricordo negli ultimi anni a fianco di Valentino Parlato e del
“manifesto” nelle battaglie contro il berlusconismo trasversale),
ne disegna con tratto netto e convincente la figura morale e
politica. Val la pena di riproporlo 35 anni dopo, in un momento tra i
più neri della storia europea e italiana recente, perché figure
come Spinelli non cessino di avere il valore esemplare che meritano.
(S.L.L.)
"Quando questa crisi
avrà fatto il suo corso e saranno risolti i problemi, l'Algeria, la
liquidazione dell'impero, i rapporti con l'America, e via dicendo...
allora, certamente, la Francia tornerà al sistema dei partiti... De
Gaulle non può cambiare la natura del sistema politico francese,
fondato sulla lotta tra i partiti... e la Francia tornerà
all'Europa, perché il suo problema storico è sempre stato quello di
controllare l'Europa; e l'Europa è troppo francese perché la
Francia in fin dei conti non sia europea... e nonostante tutto, il
vero ostacolo all'unità europea non sarà mai la Francia, semmai l'
Inghilterra...".
Era una sera del 1960,
non ricordo il giorno (non ho per la storia recente e vissuta la
terribile memoria crono-topografica d'un Giovanni Spadolini), ma ho
davanti agli occhi intatta l'immagine. Nel salone della sua casa in
via Clivo Rutario, Altiero Spinelli, senza baffi nè barba e ancora
con alquanti capelli scuri attorno all' avanzante chierica, parlando
con la solita calma (nella solita calata romanesca) analizzava con
stupefacente correttezza di previsione gli elementi fondamentali
della situazione europea, messa ormai a soqquadro dal trionfante
Generale. Distingueva il contingente e il duraturo, politicissimo nel
giudicare il contingente, un po' brutale nel realismo sugli uomini e
le forze, ma largo di prospettiva. Sembrava altrettanto sicuro del
senso e della piega del futuro, quanto del valore e della realtà del
passato, e insieme tutto immerso nel presente, quasi che solo l'agire
nel presente conti; come uno per il quale il concreto faticare ed
escogitare quotidiano, per lui inevitabile e assoluto, s'identifichi
con l'ideale, altrettanto inevitabile e assoluto, posto nel pensiero
del passato e nella previsione dell' avvenire...
Mi astraevo,
nell'ascoltare; consideravo quell' uomo grosso e dall'aspetto bonario
ma non mite, dai modi amichevoli nell'offrire la sua lineare sapienza
e l'ammaestramento della singolarissima esperienza di uomini, fatti,
sofferenze, gioie; quello Spinelli che fino ad allora avevo
conosciuto soprattutto come l'imponente personaggio aggirantesi
trafficando laboriosamente nelle stanze del Movimento federalista
Europeo, o parlante dell'Europa dai palcoscenici dei teatri e dai
tavoli dei convegni, o senza requie scrivente specie sul “Mondo”.
Senz'alcun dubbio, uno dei maestri della mia generazione, iniziata
nel dopoguerra ai misteri della democrazia, della guerra fredda,
dell'Europa disfatta e da rifare, da unire, confederare o anzi da
"federare", come voleva quel tenace ed estroverso
solitario, con cocciutaggine per molti mal comprensibile in un uomo
così evidentemente intelligentissimo, "forse il più
intelligente di tutti". Mi astraevo, dunque, ripensando che
proprio qualche giorno prima un suo fedelissimo seguace me ne aveva
fatto un ritratto tutto politico, come d'un instancabile, astuto
tessitore di trame e rapporti, un tantino spregiudicato, durissimo
dietro il sorriso, perfino un po' cinico; e a un tratto mi riscossi,
nell'accorgermi che il suo itinerario analitico, aggirantesi attorno
a De Gaulle e Guy Mollet, i partiti francesi, gl'interessi tedeschi,
gli errori americani, la meschinità del nostrano europeismo di
facciata e via dicendo, era improvvisamente approdato ad alcune
considerazioni sull'inevitabilità dell'umanesimo laico di origine
greca, centro della civiltà europea, da sempre e per sempre
contrapposto e collegato col cristianesimo di Paolo e di Lutero; e
citava Platone ed Erasmo. Confrontai mentalmente tra loro i tre della
nostra sacra triade, La Malfa, Pannunzio, Spinelli: La Malfa non
citava mai nessuno, Pannunzio pochissimi, quasi solo Tocqueville; ma
Spinelli, ora, citava anche i Pitagorici e Ippocrate. Mi ricordai
allora che sapeva il tedesco, e che avevo letto la Storia della
Storiografia Moderna di Eduard Fueter nella sua traduzione (un
frutto del confino a Ventotene). E sapere il tedesco vuol dir molte
cose, nella cultura occidentale, strane e inquietanti cose.
Questo e altro mi è
venuto alla mente leggendo il primo volume dei ricordi di Altiero
Spinelli, pubblicato ora da "Il Mulino"; anzi, subito a
vederne il titolo, ovviamente sorprendente: Come ho tentato di
diventare saggio - I. Io, Ulisse (pagg. 351, lire 25.000).
Saggio è parola che s'addice a un politico solo se egli trae dalla
politica una misura morale e intellettuale, calibrata sull' sperienza
del vivere e del soffrire, del riflettere e resistere: e ne fa un
dono. Da buon seguace della sapienza greca (ed egli oggi aggiunge
"buddista, taoista"), Spinelli ha conosciuto se stesso, sa
che saggezza è anzitutto il tentar di diventare saggio. E guardando
indietro, s'avvede ora che l'avventura della sua vita gli ha concesso
di tentarlo; concedendogli anche l'altra indispensabile virtù del
saggio, che è diventar vecchio, sopravvivere alle avventure e
sventure fino all'età della ricapitolazione e dell'insegnamento.
In questo libro ce ne è
molti, d'insegnamenti storici e politici. Assomiglia abbastanza, in
ciò, agli ultimi libri di ricordi di un altro antico combattente,
Giorgio Amendola; ma assai diverso ne è il senso e lo stile. Questi
sono infatti i ricordi d'uno che in prima gioventù divenne
comunista, e come tale finì in carcere donde uscì solo per il
confino di Ventotene (sedici anni in tutto), e in carcere cessò
d'essere comunista per motivi interiori d'idee, di concezione morale,
di convinzioni politiche. Una "scelta di vita", dunque, in
certo modo opposta a quella di Amendola (dal comunismo alla
democrazia sociale e liberale, non viceversa). Ma questo è
relativamente secondario. Ciò che più colpisce è che Spinelli non
appare mai, nella storia della sua crescita, della sua dura
esperienza e poi della politica attiva, come l'"ex comunista"
nel senso tipico della parola. Poiché egli era diventato comunista
per libera scelta personale, non per spirito di rinunzia alla
soggettività; e cessò di esserlo non per la riscoperta di una
libertà rinunciata, grave di rancore verso gli altri e se stesso,
bensì per via d'approfondimento di ciò che egli nell'intimo era
sempre stato. Per usare le parole di Goethe, Spinelli in questi
ricordi di gioventù e maturità, per la maggior parte ricordi di
carcere e confino (si ferma, questo primo volume, al 43, col ritorno
in libertà degli isolani confinati), si rivela come uno che "diviene
ciò che è".
La forte personalità,
dominando la storia della sua vita e dei suoi incontri e scontri
politici, gli ha consentito un' aspra oggettività, che non è
distacco, bensì impronta nella memoria dei fatti e delle persone
lasciata da un individuo che sente se stesso vivere con gli altri,
nella storia del mondo. Così, i suoi ritratti umani di comunisti e
non comunisti, compagni di carcere e di confino, appaiono pieni di
valore morale e ideale, mai di astratto impegno ideologico.
Eterodosso e non conformista per natura e sviluppo, non è strano che
Spinelli mostri di giudicare il settarissimo Secchia con maggior
comprensione che non il complesso ed ambiguo Sereni; presso la sua
saggia equanimità del ricordo non ha perdono solo il fanatismo,
nella forma dell'opportunismo fideistico o della vanità egocentrica
(come quella da lui còlta in alcuni, peraltro eroici, azionisti).
Del resto, questi ricordi si possono leggere in molti modi.
Soprattutto, se si vuole, come preparazione e contesto della scoperta
del disegno politico della Federazione Europea, come storia delle
radici del Manifesto di Ventotene, di Spinelli, Ernesto Rossi
ed Eugenio Colorni. Saggio, Spinelli; e Ulisse. E non
solo, come egli stesso accenna, perché la sua vita è stata
un'"odissea" (o perché il suo pseudonimo d' antifascista
fu proprio "Ulisse"). Ma se è vero che nel suo modo di
sentire e pensare, d'aver vissuto e di vivere l'avventura della vita
e della politica, piccola e grande, c'è quel che mi è parso vi sia,
cioè l'esser sempre concretamente presente, l'instancabile agire ed
escogitare, e insieme il sentire l'ideale lontano e profondo nel
passato, lontano e alto nel futuro; questo è proprio Ulisse, il più
duttile, scaltro, indomabile, tenace "inventore" tra gli
sventurati eroi reduci dall' incendio di Troia, ma anche il più
"filosofo", capace di prevedere il futuro e di ricordare e
raccontare il passato; fedele alla patria che attende.
"la Repubblica", 23 maggio 1984
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