In pochi, forse in
pochissimi, sanno chi sia stato Giorgio La Piana. È lo stesso
Francesco Torchiani, autore del libro a lui dedicato (L’Oltretevere
da Oltreoceano. L’esilio americano di Giorgio La Piana,
Donzelli, Roma 2015), ad ammettere nella sua introduzione che molti
avrebbero avuto difficoltà a riconoscere l’ex sacerdote siciliano
“in quel gentleman perfettamente a suo agio tra i membri del corpo
accademico” di Harvard.
La biografia di Torchiani
ha così il merito di riempire un vuoto ricostruendone
meticolosamente la vicenda, e non senza piglio critico.
Nato nel 1878, nel
paesino di Piana dei Greci, La Piana compì i primi studi nel
seminario di Monreale e nel 1900 vestì l’abito talare, che però
“macchiò” quasi subito di simpatie moderniste. Anche La Piana
non fu immune da quella crisi religiosa e spirituale che scosse il
mondo cattolico già dalla fine dell’Ottocento, nell’intento di
conciliare con la fede il mondo moderno e la scienza. La “peste
modernista” (così il vituperio di Pio X nella Pascendi del
1907), che voleva applicare il metodo critico anche alla lettura dei
testi sacri, minacciava la chiesa su due fronti: quello sociale, con
la sua “secolarizzazione rivoluzionaria”, che andava ad insidiare
“il disegno di società perfetta e immutabile di cui la chiesa era
custode”; e quello dello studio dei testi sacri, che si voleva
sottoporre al vaglio della ragione. È evidente che, a fronte di
queste rocciose chiusure dell’ufficialità cattolica, non vi era
spazio alcuno per chi – come La Piana – affrontava i temi della
chiesa con spirito critico.
Fu così che nel 1913 La
Piana si imbarcò per l’America, dove raggiunse i fratelli in
Wisconsin. Dopo un periodo trascorso nella città di Milwaukee, si
trasferì a Cambridge, nel Massachusetts, e lì ottenne una cattedra
alla Harvard Divinity School. Qui divenne subito docente stimato e
temutissimo, tanto che George Mosse ricordò che proprio La Piana gli
aveva fatto passare “i peggiori minuti” della sua vita, durante
l’esame di ammissione al dottorato in storia. A Cambrige La Piana
divenne il punto di riferimento degli esuli antifascisti e, primo fra
tutti, di Gaetano Salvemini, che così scrisse di lui: “La sua
influenza su di me è stata enorme. Perché è un uomo di grande buon
senso e perfetto equilibrio morale. Ha sempre funzionato su di me
come ‘stabilizzatore.’ Sono d’accordo su tutte le sue idee
fondamentali per la vita morale, scientifica e politica. Ma io sono
un impulsivo. Lui è quieto e meditativo”. Una consonanza di idee
che fu suggellata nel 1943 con un lavoro scritto a quattro mani: What
to do with Italy? Uno scritto importantissimo, che individuava
tra le cause del fascismo proprio l’incrocio incestuoso tra lo
stato e la chiesa.
E che inoltre martellava
sulla incompatibilità tra la democrazia moderna e la chiesa quale
unica detentrice della verità. Tema questo che dominerà le
riflessioni di La Piana anche dopo la fine della seconda guerra
mondiale, ancora una volta in piena concordanza con Salvemini, che
sosteneva le stesse tesi dall’Italia, dove era ritornato alla fine
del conflitto. Il lavoro di Torchiani è importante anche per questo:
perché propone al lettore riflessioni ancora estremamente attuali
sull’eterno conflitto tra stato e chiesa.
"L'Indice", Aprile 2016
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