"Non ci sarà
nessuno che mi liberi da questo prete turbolento?". La subdola
esclamazione di Enrico II d'Inghilterra che, secondo la tradizione
letteraria, costò la vita al "turbolento" Thomas Becket è
un modello applicato spesso dagli storici al delitto Matteotti.
Parole analoghe avrebbe pronunciato Mussolini sfogandosi con i suoi
zelanti fedelissimi dopo il discorso con il quale, il 30 maggio 1924,
il deputato socialista Giacomo Matteotti aveva denunciato davanti
alla Camera i brogli fascisti nelle elezioni di aprile. Ma come le
spade dei cavalieri normanni non liberarono il Plantageneto dal
fantasma del vescovo ribelle, così i sicari della "Ceka
fascista" che il 10 giugno 1924 sequestrarono Matteotti sul
Lungotevere Arnaldo da Brescia, per poi ucciderlo in oscure
circostanze, non resero un buon servigio al loro Duce.
Che i fascisti avessero
voluto colpire uno dei loro oppositori più intransigenti apparve
subito evidente. Matteotti non era certo uno di quei vecchi compagni
che Mussolini poteva sperare di associare alla sua avventura.
Socialista gradualista, adorato da Turati come "figlio
intellettuale", il giovane segretario del Partito socialista
unitario si distingueva per le virtù severe, protestanti, per i
discorsi asciutti, così diversi dall' oratoria ridondante del primo
socialismo. "Egli fu forse il solo socialista italiano per il
quale riformismo non fosse sinonimo di opportunismo", dirà
Piero Gobetti. Quando si seppe che il coraggioso avversario dei
fascisti era scomparso, un' ondata di protesta e di ribellione morale
sconvolse le esigue fondamenta di un governo che non era ancora
regime. La secessione aventiniana, la pressione dell'opinione
pubblica e della stampa antifascista, mentre si vociferava di un
intervento del Re per restaurare l'infranta legalità statutaria,
misero alle corde Mussolini, più solo che mai. Il martirio di
Matteotti aveva fatto il vuoto intorno al fascismo, che fu salvato
solo dalle divisioni interne al campo democratico e dall' ignavia del
Quirinale. L'ombra di Matteotti continuò sempre a perseguitare
Mussolini. Poco prima di terminare ingloriosamente la sua parabola,
il 23 aprile 1945, egli ricorderà ancora quel pomeriggio d'estate di
ventun anni prima, quando confessava ad un amico: "Sono così
spaventosamente solo che venti uomini decisi a giungere fino a me non
troverebbero la resistenza di nessun difensore. Ho qui delle buone
rivoltelle; sono però ancora indeciso se al momento dell'irruzione
dovrò sparare o se dovrò subire passivamente la mia sorte".
Della grande paura di
Mussolini, della protervia ma anche del senso di colpa che ispirò
l'atteggiamento del fascismo verso i familiari del deputato
assassinato, parla il figlio di Giacomo Matteotti, Matteo,
nell'autobiografia (Quei vent'anni) che uscirà in autunno
presso l'editore Rusconi. Vado a trovarlo per rievocare con lui quei
giorni. "Nell'estate del 1924 io avevo tre anni", racconta
Matteotti, e socchiude gli occhi a captare sensazioni antiche. "Il
tempo ha disperso le immagini di quei giorni. Ma vedo ancora mia
nonna che un giorno di primavera del 1928 mi accompagna verso il
03605 Lungotevere, nel punto in cui gli assassini stettero in
agguato, e mi descrive nel suo dialetto veneto il colloquio che lei e
mia madre ebbero con Mussolini subito dopo il delitto, per chiedergli
la restituzione della salma di mio padre. "Quando semo entrae
nella stanza grande", mi disse, "dove i ne gavea dito de
andar, non sapeva dove metter le man; el gavea do oci da matto. El
parlava come s' fosse deventà un fià balbo (un po' balbuziente). El
continuava a dirne ch'el gavarìa fato de tutto per trovarlo. Ma si
capiva che nol gera sincero; non sapeva come cavarse fòra. I diseva
ch'al gaveva paura che qualchidun entrasse nella stanza e lo buttasse
zò par el balcon. Sèmo vegnuè via ch'el tremava"".
Di questo Mussolini
minore, insicuro, simile all'uomo finito che cadrà nelle mani dei
partigiani, il libro di Matteotti offre altri frammenti. Così
quando, nel luglio 1924, il cognato della vedova Matteotti, Emerico
Steiner, chiese al capo del governo che almeno fossero restituiti
l'anello di fidanzamento e il piccolo bottone di zaffiro che Giacomo
Matteotti portava all'occhiello, questi rispose alterato: "Non
le prometto nulla! Non posso prometterle nulla!". L'incertezza
del governo in quei mesi decisivi contagiava tutto l'apparato dello
Stato. Quando le veline di Palazzo Chigi sostennero che il corpo del
deputato socialista, ritrovato il 16 agosto nella macchia della
Quartarella, era stato individuato da un cane, e la vedova mandò
Steiner dai funzionari di polizia per chiedere in dono quel randagio,
la risposta fu quasi stizzita: "Ma via, commendator Steiner!
Quel cane non esiste. La stampa ne ha parlato solo per la gente. Il
ritrovamento doveva apparire casuale. Ma chi doveva sapere, sapeva.
Si è atteso fino ad oggi perché siamo in agosto, lei mi
capisce...". Scavando negli archivi, Matteo Matteotti ha
recuperato un olografo del Duce risalente al marzo 1926, quando il
fascismo rimbaldanzito celebrò a Chieti un farsesco processo agli
autori materiali del delitto. Ancora Mussolini non si sentiva sicuro.
Usava la carta intestata di Capo del Governo per dettare alla
magistratura il copione da rispettare: "1) Il processo deve
irrevocabilmente finire prima del 28 corrente mese. 2) Bisogna
evitare tutto ciò che può drammatizzare le notizie e richiamare
particolarmente l'attenzione del pubblico nazionale e internazionale.
Quindi niente clamorosi incidenti o sconfinamenti di indole politica
salvo che in sede di arringhe. 3) Il processo non deve in alcun modo
assumere carattere di processo politico, da impegnare in qualsiasi
modo Regime e Partito. Esso impegna le opposizioni".
E così fu. Gli scherani
della "Ceka fascista" se la cavarono con pene ridicole.
Intorno alla famiglia Matteotti il regime aveva già stretto una
cortina di ferro. "Eravamo sorvegliati e spiati dovunque. Dodici
agenti, con una macchina e sei biciclette, vegliavano su di noi
persino al cinema o alla partita di calcio". Dapprima il piccolo
Matteotti non si spiegò le occhiute attenzioni di quegli uomini in
divisa. "Lo capii nell' estate del 1926, credo. Io non sapevo
ancora nulla di mio padre. La nostra famiglia era a Castel del Monte,
in Abruzzo. I contadini e i pastori si toglievano il cappello ogni
volta che passavamo. Quando partimmo, una nebbiosa mattina di
ottobre, un vecchio contadino si accostò alla vettura. Tese la mano
a mia madre, e levandosi il berretto salutò: "' Turna, ' gnora.
Noi qui te vulimmo bene, come a lui!". Intuii che "lui"
era l' uomo che avrebbe dovuto occupare quel posto vuoto a
capotavola, dove era sempre posato un mazzo di garofani rossi. Seppi
la verità pochi giorni dopo, dalla voce di mia madre".
Ai tre fratelli Matteotti
la scuola fece conoscere, insieme all'ottusità e alla vigliaccheria
di alcuni insegnanti, la solidarietà o la comprensione di tanti
altri. Matteo Matteotti sorride al ricordo dell'esame di quinta
ginnasiale, al liceo Tasso: "Il tema suonava: "Perché
vesto con tanto piacere la divisa di balilla e di piccola italiana".
Sbirciai il compito della mia vicina, fascista entusiasta: "Quando
la maschia figura del Duce appare sul podio e prende la parola
ammaliatrice, mi sento pronta a compiere il dovere di piccola
italiana: difendere la patria". Intinsi la penna nel calamaio e
scrissi: "Io non vesto la divisa di balilla perché non credo in
questo regime". Ottenni la sufficienza". Al fratello
maggiore, Giancarlo, fu addirittura consentito di non indossare la
camicia nera durante i corsi di premilitare del 1938. "Il
comandante, maggiore Caccia Dominioni, convocò mia madre",
ricorda Matteo Matteotti. "Togliendosi il monocolo, garbatamente
suggerì: "Cara signora, quella nera è una camicia sporca in
tutti i sensi, ma per non dare nell'occhio, la prego, faccia
indossare a suo figlio almeno una camicia blu". La professoressa
di italiano di mia sorella si segnalava invece per servilismo. Quando
entrava in classe il preside e tutti scattavano in piedi col braccio
teso, lei si rivolgeva a mia sorella, immobile: "E tu,
Matteotti, perché non fai il saluto?". Noi ci arrabbiavamo
molto per queste stupide persecuzioni, sintomo più di conformismo
che di malanimo".
Passavano gli anni,
compresi quelli del consenso e dell'Impero, ma il nome di Giacomo
Matteotti continuava ad inquietare il regime. Quando la vedova morì,
nel 1938, la notizia non fu divulgata. I funzionari di polizia
temevano che i funerali trascendessero in manifestazione
antifascista. Durante le esequie a Fratta Polesine, un agente in
borghese impedì che il feretro fosse ricoperto di fiori. Ma nella
notte vecchie contadine intrecciarono le inferriate della cappella di
famiglia con garofani rossi. Alla vigilia della fine, nel giugno
1943, il prefetto di Chieti suggellò vent'anni di paure e di
esorcismi con questo telegramma riservato al capo della polizia: "In
città circola con insistenza la voce che il figlio di Matteotti
avrebbe manifestato l'intenzione di recarsi sulla città di Chieti a
bordo di un aereo da bombardamento nemico, per distruggerla con
grosse bombe". Ma se Mussolini fu sempre terrorizzato dall'ombra
di Matteotti, se per sbarazzarsi del suo inflessibile avversario
rischiò di perdere il potere, perché avrebbe ordinato l'assassinio?
Forse i sicari andarono oltre le sue intenzioni? Forse le radici del
delitto non erano puramente politiche? È vero che Matteotti stava
per rivelare scandali affaristici che avrebbero travolto il governo,
come suggerì allora anche il Corriere della Sera? Domande che hanno
inquietato gli storici, alle quali Matteo Matteotti non può
rispondere: "Affido però alle analisi e alle congetture dei
ricercatori un documento di grande interesse. È l'ultimo manoscritto
di mio padre, misteriosamente abbandonato fra i rifiuti, nella
campagna toscana. Qui lo trovò un vecchio mutilato nel 1976".
Sono otto fogli intestati della Camera dei Deputati. In calce
leggiamo la firma: "Giacomo Matteotti". Le perizie ne hanno
stabilito l' autenticità e la datazione. È una requisitoria -
apparsa anonima sulla rivista “Echi e Commenti” del 5 giugno 1924
- contro la politica finanziaria del governo: "...I Governi
depositano tacitamente sulle colonne della Gazzetta Ufficiale i loro
decreti, che investono interessi enormi della Nazione, e che non
raramente furono preparati nei Gabinetti dietro la richiesta o sotto
la pressione, mai pubblicamente controllata, dei gruppi o delle
persone interessate, anche a danno della collettività... Il problema
può essere qui solo accennato...". Qual era il "problema"?
Matteo Matteotti ritiene che i decreti "sporchi" contro cui
suo padre si stava scagliando fossero soprattutto due: "Uno
sulla disciplina delle case da giuoco, che consentiva al ministero
dell' Interno di far aprire bische sotto il suo diretto controllo.
L'altro affidava alla Sinclair Exploration Company il monopolio della
ricerca petrolifera in Sicilia e nell'Emilia-Romagna. E infatti il 7
giugno il giornale “La lotta”, cui mio padre collaborava,
pubblicò un articolo che, riprendendo quasi letteralmente le frasi
dell'ultimo manoscritto di mio padre, denunciava il carattere oscuro
e dannoso per gli interessi nazionali della convenzione Sinclair".
Matteotti fu trucidato anche perché stava per rivelare loschi
intrallazzi di regime? Siamo ancora nel campo delle congetture. Dopo
sessant'anni è difficile illuminare tutti gli angoli di una vicenda
così sfaccettata. Forse però i ricordi e le ricerche del figlio di
Matteotti indurranno gli storici a indagarne le pagine più opache,
separando un po' di grano dal tanto loglio che nasconde le origini
dell' agguato del Lungotevere.
“la Repubblica”, 7
giugno 1984
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