L'articolo qui ripreso,
di fine 1960, è il fondo di un numero di Vie Nuove,
il settimanale popolare fondato e a lungo diretto da Luigi Longo e
pubblicato dagli Editori Riuniti, la casa editrice del Pci. È,
secondo me, assai bene documentato ed efficace: bene illustra,
qualche mese dopo il luglio 60, che vide in molte città italiane le
cariche feroci della polizia e in alcune (Reggio Emilia, Licata,
Palermo) i manifestanti antifascisti uccisi nelle strade, il torbido
intreccio tra un personale burocratico-poliziesco fascista per
origine e mentalità ed il potere democristiano.
La firma è Mi. M.,
l'autrice è Miriam Mafai, che al tempo, dopo un'esperienza di
amministratrice comunale per il Pci a Pescara, lavorava
nella redazione di Vie
Nuove, di cui fu anche inviata a
Parigi. La Mafai, che
un po' più tardi (1962) divenne la compagna di Giancarlo Pajetta,
era ancora “organica” al Pci, seppure nel ruolo professionale di
giornalista che più le era congeniale; non si era perciò ancora
specializzata nel dileggio (generalmente postumo) dei comunisti
italiani e del comunismo italiano, in cui si contraddistinse
più tardi, a partire da un suo
velenoso libro contro Pietro Secchia, e che toccò l'apice nel
Dimenticare Berlinguer e
nel Silenzio dei comunisti.
Parlando del proprio passato la Mafai nel 1995 ebbe a definirsi "una
femminista nel partito più maschilista di tutti". Niente da
obiettare sul maschilismo del Pci, ma che fosse “il più
maschilista”, più della Dc, del Msi e dei saragattiani, è una
esagerazione senza fondamento. E lo dimostra proprio l'esempio di Vie
Nuove, che all'epoca non solo
ospitava come rubrica fisse (lo fece per 5 anni dal 1960 al 1965) i
Dialoghi con Pasolini,
la cui omosessualità era tutt'altro che segreta, non solo era
diretto da Maria Antonietta Maciocchi, ma affidava a una donna, lei
stessa, la stesura dell'articolo di fondo, quello che dava la linea
al giornale. (S.L.L.)
Solo le comunità i cui
cittadini non avevano diritto di voto (cives sine suffragio,
di seconda categoria quindi, senza pienezza di diritti politici e
civili) potevano, nel diritto romano, essere soggette ai «prefetti»,
delegati dal pretore urbano per la giurisdizione di città situate ad
una certa distanza da Roma.
Una concezione dello
Stato che faccia perno sull'istituto dei prefetti, presuppone dunque
una società di cives sine suffragio. Il diritto romano aveva
il merito di chiamare le cose con il loro nome, merito che si è
andato perdendo nei secoli. L'on. Scelba ad esempio, pronunciando il
suo «elogio dei prefetti», domenica scorsa a Firenze, ha parlato
certamente un linguaggio assai chiaro, ma non quanto sarebbe stato
desiderabile. Egli, come si sa, ha dichiarato che «se il prefetto
non esistesse bisognerebbe crearlo», ha sostenuto che la sua è una
posizione di «naturale preminenza» nei confronti degli organi
elettivi dei potere locale, ha insistito che «per quanto ampia possa
essere la autonomia degli enti locali», la vigilanza ed il potere
prefettizio rimarranno pur sempre elementi «insopprimibili».
Tralasciamo qui di sottolineare come questa concessione entri,
apparentemente, in contrasto con dichiarazioni fatte da altri
esponenti della De i quali si affermano, a parole, fautori di una più
ampia autonomia municipale, collegata con la istituzione dell’Ente
Regione, così come previsto dalla Carta Costituzionale. A queste
parole noi abbiamo sempre creduto con molte riserve, anche per una
fondamentale discordanza tra le parole e i fatti; le affermazioni
dell’on. Scelba esprimono certamente meglio i reali intenti della
politica De anche perché si accompagnano inesorabilmente ai fatti
che le confermano. Non c’è dubbio infatti che in questi anni i
prefetti si sono comportati, secondo le direttive dei successivi
ministri degli Interni, esattamente come delegati a governare
«cittadini di seconda categoria», commettendo una lunghissima serie
di soprusi, di discriminazioni, di vere e proprie illegalità.
La verità è che ogni
prefetto, ancora oggi è convinto di essere la « più alta autorità
dello Stato presente nella circoscrizione, cui fa capo tutta la vita
della provincia, che da lui riceve impulso e direttive... ufficio non
semplicemente amministrativo, ma anche squisitamente politico». «Il
prefetto (traiamo questa definizione da un testo di diritto pubblico
dell’epoca fascista) ha potestà di comando e di divieto, funzioni
di controllo di legittimità e di merito, funzione di repressione e
di prevenzione, egli vista omologa autorizza approva nomina delega
revoca annulla sospende, sostituisce l’opera propria a quella di
uffici ed enti,., espropria liquida spese contratta punisce licenzia,
applica multe ordina inchieste, e così via... ».
Questa definizione del
prefetto potrebbe non essere che una curiosità storica, se a
ricoprire questa carica, oggi nel nostro paese non fossero proprio i
vecchi funzionari dello Stato fascista, secondo i quali evidentemente
quelle norme hanno ancora vigore.
Quanto affermiamo è
rigorosamente documentabile. Sono dati agghiaccianti quelli che
sottoponiamo oggi alla attenzione dei nostri lettori. Su 64 prefetti
di prima classe, tutti (escluso uno: l’avv. Luigi Peano) hanno
avuto incarichi anche di alta responsabilità durante il regime
fascista. Un esiguo gruppo di questi alti funzionari, esattamente i
prefetti di prima classe: Rizza, Palamara, Zacchi, Mauro, De Sena,
Morosi, Jannoni, entrarono in servizio prima della "Marcia su
Roma”. Il regime li conservò ai loro posti, facendoli avanzare
verso i gradi più elevati. Una buona parte degli attuali prefetti
della Repubblica potrebbero poi essere definiti come appartenenti
alla «leva Matteotti»; sono infatti coloro che entrarono in
servizio in quel tragico periodo della storia nazionale, una sorta di
volontari quindi della amministrazione e della burocrazia dello Stato
fascista, e suoi fedeli servitori per esattamente venti anni. Sono i
prefetti di prima classe Carcaterra (attuale capo della Polizia),
Speciale, Moccia, Celona, Temperini, De Filippo, Limone, Micali,
Mascolo, Meneghini, Iodice, Cigliese, Antonucci, Di Pangrazio,
Salazar. Immediatamente dopo la promulgazione delle leggi
eccezionali, con l’irrigidirsi ormai del regime nelle regole di una
dittatura accentrata e sempre più bisognosa di una fedele
burocrazia, nuovi funzionari di particolare fiducia vennero
selezionati tramite i concorsi ai posti direttivi. È del 26
l’ingresso nella carriera degli attuali prefetti dì prima classe,
Foti, Gaipa, Mondio, Carelli, Torrisi, Liuti, Ioannin, Scolaro,
Guida, Mininni. Tutti gli altri sono entrati al ministero negli anni
successivi compresi tra il 1930 e il 1934.
Questi sono i fedeli
funzionari dello Stato fascista, per costume, mentalità e
convenienza portati ad una concezione autoritaria, antidemocratica
della proprie funzioni, rotti alla discriminazione, all’odio
anticomunista ed antipopolare, all'intrallazzo, al silenzio complice
ed al servilismo politico, gli uomini ai quali Scelba attribuisce
oggi una funzione «preminente» ed «insopprimibile» nella
costruzione del nuovo Stato democratico.
Sulla base di questa
lunga alleanza tra un potere legislativo nel quale la Dc ha detenuto
per lunghi anni la maggioranza assoluta, ed un potere esecutivo
rigidamente governato da vecchi funzionari di educazione e mentalità
fascista, sta il segreto del predominio, del monopolio di potere
della Dc. Per questo noi non crediamo che il governo Tambroni fosse
un fatto casuale, una sorta di malefica improvvisazione, dalla quale
la Dc si sarebbe riscattata con l’attuale formula governativa. No,
il male è alla radice, è in una lunga pratica di potere esercitata
insieme, nei gabinetti ministeriali prima ancora che nei corridoi di
Montecitorio, tra due corrotte classi dirigenti. E ognuna si è
riconosciuta e compenetrata tanto nell'altra che è difficile ormai
distinguere quanto ognuna vi abbia dato di suo. Il risultato, il
clerico-fascismo, è, comunque, mostruoso.
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