È
già presente nel blog un brano del testo che segue, un'ampia
recensione scritta per la rivista Umbria Contemporanea,
promossa e fondata da Raffaele Rossi e Tullio Seppilli, e lì
pubblicata sul finire del 2011 nel corposo volume dedicato ai
movimenti per la pace. Mi è parso utile per me e forse per altri
conservarlo qui anche nella sua forma integrale, a futura memoria.
(S.L.L.)
All’inizio del 2010
Laterza ha dato alle stampe La non-violenza. Una storia fuori dal
mito. Ne è autore Domenico Losurdo, uno studioso di confine, il
quale, in quanto accademico, ha avuto e conserva ruoli ufficiali
nella struttura universitaria, ma da almeno un decennio si propone di
sottrarre alla generalizzata mitizzazione e mistificazione alcuni
elementi costitutivi del “pensiero unico” post-Ottantanove.
Da questa ricerca
controcorrente sono usciti fuori alcuni testi tra storia, politica e
filosofia, tutti molto discussi: una “controstoria” del
liberalismo oggi dominante, una rivisitazione apologetica della
“leggenda nera” di Stalin e da ultimo il libro sulla non-violenza
che ne ricostruisce fondamenti e vicende e ne contesta l’odierna
canonizzazione acritica e strumentalizzazione imperialistica.
L’approccio scelto da
Losurdo, per affrontare la tradizione politica non-violenta, il suo
stratificato edificarsi nel tempo e il suo sostanziale esaurirsi
(almeno ai suoi occhi), connette l’aspetto storico-politico a
quello storico-filosofico, utilizzando spesso il metodo
comparatistico come strumento forte di valutazione.
Tre grandi racconti
Lo studioso è del tutto
consapevole - e del fatto dà conto ai lettori - che sono molte le
scaturigini e le motivazioni delle teorie e delle pratiche della
non-violenza e che esse affondano le radici tanto nella dimensione
religiosa dell’esistenza quanto nel più laicistico degli
utilitarismi; e tuttavia tenta di ricondurre a unità la complessità,
fissando punti di partenza e approdi.
Alle origini della
non-violenza come costruzione politica Losurdo pone il tema della
pace universale. Esso matura come esigenza fin dal Settecento
illuministico, quando trova espressione compiuta nel tendenziale
repubblicanesimo e nel federalismo universalistico di Kant; non manca
poi di voci autorevoli (da Tolstoj a Freud) tra Ottocento e
Novecento; giunge infine a maturità nel cuore del “secolo breve”,
nel corso del quale la condizione atomica e lo sviluppo tecnologico
esauriscono definitivamente la retorica della guerra “bella” ed
“educativa”.
Schematicamente Losurdo
individua tre progetti o “grandi racconti” (il che – ovviamente
- non nega interrelazioni e contaminazioni tra essi) che aspirano a
chiudere definitivamente il tempo della guerra tra gli Stati: quello
rivoluzionario che prende origine dal giacobinismo e attraverso il
movimento operaio e il marxismo trova il suo apogeo nel leninismo;
quello non-violento che tenta di eliminare in radice la
possibilità della guerra; quello dell’interventismo “democratico”
che punta sulla diffusione del modello occidentale di libertà
politica come antidoto al dispotismo bellicista.
L’origine di
quest’ultimo “pacifismo”, più ideologico che effettuale, è
intravista da Losurdo nella Prima guerra mondiale, quando, nel campo
dell’Intesa, intellettuali di sicura fede democratica come
l’italiano Gaetano Salvemini giungono a invocare la guerra per
“uccidere la guerra” e non esitano a chiedere per questo scopo
nobile il sacrificio della vita. Paradossale è che, da una parte,
come bersaglio di questa guerra fosse indicata la Germania
militarista e il suo espansionismo, mentre la Germania a sua volta
giustificava la guerra con la necessità di colpire l’Orso
dell’Est, la Russia zarista fonte di autocratica oppressione e di
ottusa violenza. A consacrare l’ideologia della “pace definitiva”
come prodotto della diffusione nel mondo della “libertà politica”
fu poi il presidente Usa Wilson, quando nel 1917 il grande paese
d’Oltreatlantico, rompendo con la tradizionale dottrina Monroe,
entrò direttamente nella Grande Guerra europea.
Si tratta per Losurdo
dell’unica fra le tre opzioni rimasta in campo, seppure con una
forte carica di mistificazione. Gli Usa, infatti, tendono oggi a
presentarsi come una sorta di “nazione eletta”, che spende sé
stessa e le sue risorse per affermare ovunque la democrazia
rappresentativa. La prassi e l’ideologia dell’impero ha finito,
peraltro, con l’inglobare la stessa non-violenza come metodo di
lotta, trasformandola in strumento di acquisizione all’Occidente
capitalistico di nuovi spazi di libera espansione.
Contraddizioni radicali
non erano mancate anche nel campo dei rivoluzionari socialisti, la
cui proposta di pace universale si reggeva sull’internazionalismo
dei proletari e delle classi sociali sfruttate e oppresse. Losurdo
indica due nodi storici che misero in crisi lo schema: quello delle
guerre coloniali cui una parte del socialismo europeo guardò con
simpatia in quanto guerre di “civilizzazione”; il primo conflitto
mondiale, che spaccava l’Internazionale e scuoteva le coscienze di
capi e militanti, divisi tra un antimilitarismo spinto sino al
disfattismo e la “nazionalizzazione” armata del movimento
operaio.
Il racconto di Losurdo
parte dall’America dell’Ottocento, ove i primi movimenti
impegnati a costruire ordinamenti civili a base non-violenta
risentono di una evidente ispirazione religiosa ed esprimono una
forte caratterizzazione riformatrice. Essi rompono, per esempio, con
l’idea della guerra santa, caratteristica di tanto protestantesimo
nordamericano che, attraverso la predicazione del Vecchio Testamento,
giustificava non solo i conflitti con Francia e Inghilterra, ma anche
la sottomissione dei pellerossa e la schiavitù, in quanto
prosecuzione dello stato di guerra. E’ soprattutto la Guerra civile
americana, lunga, dura e piena di lutti, a indurre contraddizioni e
ritrattazioni. L’uno dopo l’altro, Stearns e Garrison, tra i capi
più prestigiosi del movimento non violento e abolizionista,
accettano la guerra come inevitabile; e altrettanto fa Thoureau, il
profeta della “disobbedienza civile”.
Il libro poi segue, nei
rapporti reciproci, il movimento socialista, Gandhi e Tolstoj,
l’anticolonialismo, i dibattiti intellettuali intorno alle due
guerre mondiali, Martin Luther King. Il secondo dopoguerra
occidentale è anche il tempo della “canonizzazione” della
non-violenza e della sua progressiva strumentalizzazione, che a
Losurdo sembra evidente sia nella vicenda tibetana sia in quella
delle cosiddette rivoluzioni colorate dell’Est europeo.
Il gigante Gandhi
Il passaggio chiave è
individuato nella figura di Gandhi, la cui mitizzata intransigenza
non-violenta esce fortemente ridimensionata dall’ampia ricognizione
su tutta la sua vicenda politica. All’originario rifiuto morale
della guerra e della violenza, sempre rivendicato, infatti
corrisponde in Gandhi un comportamento politico spregiudicato, con
molte svolte, il cui obiettivo è, in un primo tempo, l’elevazione
degli indiani al livello degli inglesi nel grande impero coloniale
britannico, al di sopra delle altre razze. In questa luce si fa
reclutatore di volontari indiani per la guerra contro i boeri in Sud
Africa: l’obiettivo è “partire e morire per la causa dell’India
e dell’Impero”. Di questa partecipazione Gandhi sottolinea il
valore pedagogico: la guerra, infatti, trasformerebbe degli uomini
rozzi e indocili in persone animate da gentilezza e senso del dovere.
Nel 1906 Gandhi cerca di favorire la formazione di un corpo militare
indiano che intervenga repressione degli zulù. Manterrà questo
atteggiamento collaborativo a lungo, per tutta la durata della Grande
Guerra.
Lev Tolstoj |
La tesi di Losurdo è
che, fino a quel tempo, il campione della non-violenza è semmai
Tolstoj, con cui Gandhi scambia alcune lettere, ma da cui è distante
per la mancata condanna dei massacri perpetrati dai governi europei
nelle loro politiche imperialistiche. È dopo il massacro di
Amritsar, messo in atto nel 1919 contro gli indiani dal potere
coloniale inglese, che Gandhi definitivamente abbandona l’aspirazione
alla cooptazione e tende piuttosto a collocare l’India nel processo
più generale di emancipazione del mondo dal colonialismo
occidentale.
Losurdo non cessa
tuttavia di mettere in fila contraddizioni, cadute e debolezze cui,
anche dopo, il Mahatma va incontro, dalla sua simpatia per il
fascismo italiano al suo mettere sullo stesso piano Hitler e
Churchill, fino all’autoritarismo violento e antifemminista che in
un alcune occasioni manifesta nella vita quotidiana della sua
comunità. Lo studioso italiano sembra quasi aver assunto il ruolo
di “avvocato del diavolo” nei processo di beatificazione di
Gandhi, ma, se nel libro costui subisce un ridimensionamento come
“non-violento”, di sicuro giganteggia come leader politico
nazionale, artefice dell’indipendenza dell’India, e di lui
vengono valorizzate le capacità di costruzione culturale e
ideologica e di direzione politica. Tra le sue intuizioni
ideologiche, politiche e propagandistiche Losurdo ricorda la
rivendicazione del primato morale dell’India e dell’Asia gentile
sulla barbara Europa guerriera e conquistatrice, l’utilizzazione
efficace di motivi ed emozionalità religiose, la lotta non-violenta
come produttrice d’indignazione e di consenso perfino tra i
“nemici”. In questa chiave anticolonialista, peculiarmente
asiatica, Losurdo può mettere a confronto “il partito di Gandhi”
e “il partito di Lenin” (meglio si direbbe dei “leninisti”
Mao Tse Tung e Ho Chi Minh), trovandovi più analogie che differenze.
Il giganteggiare di
Gandhi si ricava del resto dall’esemplarità che assume la sua
lotta in tutto il mondo. Con il suo pensiero e la sua azione si
confrontano infatti, anche criticamente, alcune tra le più grandi
figure dell’intellettualità europea, stimolate dalla coscienza
religiosa e attratte dalla prospettiva della non-violenza: Reinhold
Niebuhr, Dietrich Bonhoeffer, Simone Weil e Aldo Capitini. E “Gandhi
nero” è con buone ragioni denominato, anche da Losurdo, Martin
Luther King.
Anche King, come un tempo
il Mahatma, parte dalla tentazione di una cooptazione degli
afroamericani, a cominciare dalle loro élite, nel
potere bianco degli Usa e anche la sua storia gronda lacrime e sangue
e vive di contraddizioni laceranti. Cartina di tornasole è questa
volta la “sporca guerra” del Vietnam, intorno a cui matura la
presa di coscienza dell’impossibilità di una partecipazione al
sistema Usa così com’era, connessa peraltro al maturare nell’area
della rivolta afroamericana del sogno “terzomondista”.
Il canone
non-violento
Nella lettura di Losurdo
il partito di Gandhi non è affatto opposto al partito di Mao e di Ho
Chi Minh; e non lo è anche perché i due “leninisti” asiatici
sono tutt’altro che fautori della “violenza rigeneratrice”. In
particolare Ho, in fasi importanti della lotta di liberazione, agli
occhi dell’amministrazione coloniale francese, tende ad assumere i
tratti di un “Gandhi indocinese”, per la sua ripugnanza, insieme
istintiva e meditata, verso soluzioni di forza.
È piuttosto l’Occidente
liberale a santificare e neutralizzare Gandhi in tempi più recenti,
a trasformale la sua “non-violenza” in un moderatismo da
contrapporre come antitesi ai radicali Mao, Ho Chi Minh, Che Guevara
o Arafat.
Analogamente la vulgata del liberalismo celebrerà il primo
King, quello che aspira a rendere anche i neri partecipi del “sogno
americano”, e rimuove le successive prese di posizione del leader
afroamericano che connette il razzismo bianco degli Usa con la guerra
neocolonialista del Vietnam e guarda con ammirazione a Du Bois,
l’intellettuale radicale bianco, il genio che aveva scelto di
essere comunista.
Martin Luther King |
Il passo successivo di
questa campagna di acquisizione della non-violenza all’Occidente
liberale è quella che a Losurdo sembra soprattutto una invenzione
mediatica in funzione anticinese: l’immagine del Dalai Lama come
nuovo Gandhi e dei tibetani come “popolo più pacifico del mondo”.
Con una serie di documenti Losurdo rileva il feroce oscurantismo
dell’ideologia e della pratica lamaista e l’insanabile conflitto
tra la propaganda non-violenta e la realtà di una insurrezione,
quella del 1959, condotta addirittura con truppe suicide.
A partire dal caso
tibetano il Losurdo costruisce uno schema nel quale la “non-violenza”
diventa schermo e arma di propaganda per la sovversione in stati e
paesi che si sottraggano all’impero occidentale e le stesse forme
di lotta non-violente, marce, digiuni, boicottaggi, sono forme di una
guerra psicologica che non esclude, anzi in diversi casi richiede
l’intervento militare e la carneficina del bombardamento con le
armi più sofisticate. Questa lettura subisce perfino una inarcatura
complottista quando al Losurdo pare di vedere lo zampino di grandi
strutture spionistico-militari dell’Occidente dietro le cosiddette
Rivoluzioni colorate dell’Est europeo, per cui ipotizza lotte
non-violente teleguidate e mediaticamente enfatizzate per preparare
“guerre umanitarie” con bombardamenti di sostegno a opposizioni
amiche o addirittura con truppe d’occupazione. Paradossalmente
questa interpretazione di recenti vicende trova argomenti oggi più
che nel momento dell’uscita del volume: le vicende libiche e il
loro macabro epilogo sembrano corrispondere allo schema di Losurdo.
Le manifestazioni non-violente (o come tali presentate) represse dal
regime nazionalista di Gheddafi, lette a posteriori, appaiono lo
schermo di un’azione militare di gruppi filooccidentali,
armatissimi e molto addestrati, cui i cruenti bombardamenti spianano
la via verso una violentissima vittoria.
I mezzi e i fini
Saggiamente Losurdo
ridimensiona la critica ricorrentemente rivolta a Marx con toni
d’accusa di considerare la violenza “levatrice della storia”:
attraverso opportune comparazioni, utili a stabilire la portata di
quanto viene affermato, documenta come le frasi incriminate siano,
nella maggior parte dei casi, costatazioni su eventi del passato e
come sia quasi assente in Marx o in Engels la retorica sulla forza
catartica della guerra, caratteristica di alcuni loro contemporanei e
tanti posteri.
Il volume sulla
non-violenza fa di più: mostra anche, attraverso esempi
significativi, da Turati a Liebknecht , da Gramsci ai bolscevichi,
come la discussione su violenza e non-violenza si innesti nella
storia del socialismo europeo, ancora prima che Walter Benjamin nel
1921 impegni la filosofia nella “critica della violenza” anche “a
fini giusti”. Il dubbio che i mezzi possano corrompere i fini e
deviare dai loro obiettivi i processi di liberazione accompagna la
storia del movimento operaio europeo sia nell’Ottocento che nel
Novecento e si esprime non solo nel pacifismo e nell’antimilitarismo
ma anche nella scelta delle forme di lotta. Non-violenta al massimo
grado, anche nella sua espressione simbolica e metaforica
(“incrociare le braccia”), è del resto la principale forma di
lotta che, superate le tentazioni luddiste, il movimento operaio
scelse: lo sciopero. La vicenda del “socialismo reale”, come di
tante rivoluzioni anticoloniali “violente”, sembra peraltro aver
dimostrato che le rivoluzioni armate tendono a riprodurre forme di
oppressione non solo per effetto dell’azione di nemici esterni, ma
per fattori collegati alla loro militarizzazione e gerarchizzazione.
Il libro di Losurdo
sembra concludere che né l’opzione rivoluzionaria né la scelta
non-violenta, la quale quasi mai del resto riesce ad essere attuata
fino in fondo, garantiscono da fallimenti, tragedie e tradimenti. Tra
questi tradimenti indica il possibile (e relativamente facile)
assoggettamento della critica della violenza alla pretesa tuttora
viva dell’Occidente “di ergersi a maestro e signore del globo”.
Capitini e la sua
eredità
Non è grande lo spazio
che Losurdo dedica alla tradizione italiana della “non-violenza”.
Giustamente neppure un accenno al pannellismo e al suo “partito
radicale transnazionale non-violento”, considerati organici al
sistema politico ed economico vigente, sebbene abbiano adottato
Gandhi come simbolo e praticato forme di lotta come i digiuni. In più
passaggi del resto lo studioso valuta le pratiche di questo tipo, non
infrequenti nei paesi occidentali, come un uso deviante della
non-violenza, come azioni che ribadiscono la violenza del potere e
caso mai accentuano l’elemento gandhiano di pressione morale con
l’uso abile delle comunicazioni di massa.
Solo poche pagine sono
dedicate da Losurdo all’elaborazione di Aldo Capitini, ma
sufficienti a rilevarne taluni aspetti di originalità. Di Capitini
evidenzia il legame con il Mahatma e il rifiuto di una non-violenza
che metta sullo stesso piano oppressi ed oppressori e si ricorda la
simpatia per il socialismo di Marx e per la religiosità popolare di
Tolstoj.
Losurdo accenna peraltro
all’ambizioso progetto capitiniano di costituire una
“Internazionale non-violenta”, sulla scia dell’“Internazionale
dei Lavoratori”, rivendicando l’eredità del movimento operaio e
socialista senza tuttavia cadere nelle compromissioni di quello che
Capitini chiama “riformismo di tipo socialdemocratico”. Il
“liberalsocialismo” cui il pensatore perugino aspira non pare
allo studioso una terza via, mediana, tra capitalismo e socialismo,
ma un progetto di società originale, che si propone di ereditare
sia le conquiste civili e democratiche della Rivoluzione francese sia
quelle della “rivoluzione collettivistica russa”.
Il suo duro politicismo
rende Losurdo poco ricettivo verso il movimentismo e il “basismo”
che caratterizza l’esperienza capitiniana. In essa, infatti, non si
può separare la “non-violenza” come mezzo dalla “non-violenza”
come fine, e cioè da una “rivoluzione” capace di instaurare un
nuovo potere diffuso dal basso, l’“onnicrazia” o “potere di
tutti”. Il recente volume sulla non-violenza tace pertanto della
esperienza dei Cos (i capitiniani Centri di orientamento sociale) e
poco dice dei Cor, strumento di una parallela rivoluzione religiosa
non confessionale che alimenta la rivoluzione politica e se ne
alimenta.
Su questa linea Capitini
aspirava esplicitamente a farsi promotore di una corrente nuova di
pensiero e di azione, non riconducibile a nessuna delle sinistre
tradizionali, né borghesi né operaie. Credo che possa valere come
esempio l’incipit di un documento del 1963 pubblicato
postumo a cura di Goffredo Fofi da “Linea d’ombra” n.20 del
1988 con il titolo Per una corrente rivoluzionaria nonviolenta:
“La situazione politica italiana presenta un vuoto rivoluzionario:
i partiti stanno o su posizioni conservatrici o su posizioni
riformistiche, prive di tensione e di forza educatrice e propulsiva
nelle moltitudini. Così si va perdendo anche l’esatta prospettiva
che pone come finalità decisiva della lotta politica il superamento
del capitalismo, dell’imperialismo, dell’autoritarismo. Vi sono
tuttavia delle minoranze che vedono chiaro, ma tali minoranze devono
giungere ad un’azione organica nella situazione italiana per cui,
da una società dominata da pochi si passi ad una società di tutti
nel campo dell’economia, della libertà, della cultura”.
In un passaggio cruciale
del suo argomentare, un paragrafo dal titolo Una svolta nella
storia della non violenza (pp.239-40), Losurdo ricorda la
profonda identificazione di Gandhi con il movimento anticoloniale: il
leader indiano, proprio nello stesso momento in cui denuncia la
persecuzione antiebraica e la nazistica “notte dei cristalli”,
non esita infatti a condannare la colonizzazione sionista in
Palestina e a svolgere considerazioni che ne svelano un aspetto di
conquista, di occupazione. Losurdo cita poi il sostegno di King ai
vietnamiti e rammenta la scelta di campo di Capitini contro il
colonialismo, che nel 1963 – in pieno kennedismo - denunciava il
subentrare dell’imperialismo americano a quelli europei nel dominio
sui paesi non sviluppati. L’ipotesi dello studioso è che oggi una
parte importante della non-violenza abbia tradito le premesse
anticolonialiste e antimperialiste, che legano Gandhi a Martin Luther
King e a Capitini: ci sarebbe una sorta di “internazionale della
non-violenza” che va di pari passo “con la celebrazione di
quell’Occidente, che si erge a custode della coscienza morale
dell’umanità e si ritiene pertanto autorizzato a suscitare
destabilizzazioni e colpi di stato, nonché embarghi e guerre
umanitarie in tutto il mondo”. Dell’eredità di Gandhi in
questo contesto rimarrebbero solo “le tecniche di produzione
dell’indignazione morale”, mentre il suo Satyagraha si
sarebbe “rovesciato nel suo contrario: da forza della verità …
in un’inedita e temibile forza di manipolazione”.
Il mio timore è che
possa accadere altrettanto con Capitini, e che a volte la sua
immagine venga strumentalizzata a pro di un “interventismo
umanitario”, che facilmente dimentica come dietro ai conflitti ci
siano spesso interessi dell’Occidente. Alcuni tentativi di
“pacificazione” e ricostruzione democratica in questi ultimi anni
– nota giustamente Losurdo - sono stati anche per questo
disastrosi. Forse, nell’assumere la lezione di Capitini, non
andrebbe dimenticato che – come ha acutamente scritto Binni – non
era affatto un “pacifista innocuo” e che la rivoluzione a tutto
campo che predicava (religiosa e morale oltre che politica) era sì
fondata sulla non-violenza ma prevedeva un sovvertimento radicale
delle gerarchie razziali, economiche e sociali del mondo intero.
"Umbria Contemporanea",
Rivista di Studi storico-sociali diretta da Tullio Seppilli, vol.
16-17 Per la Pace. Movimenti, culture, esperienze in Umbria
1950-2011 – Sezione Recensioni
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