L'Abbazia benedettina di Finalpia (Liguria) |
Chi si occupa di
spionaggio e servizi segreti prima o poi si imbatte nei libri di
Giorgio Boatti, giornalista, scrittore, testimone attento delle
vicende più aggrovigliate della nostra storia recente e meno recente
nella quale potere denaro politica ed economia stringono legami
inconfessabili con soggetti oscuri. Abilissimo nell'esporre questioni
complicatissime mettendo a frutto le qualità migliori del
giornalismo italiano, con sguardo limpido, capacità di ascolto,
duttilità di mente, scava fino a rendere evidenti le fondamenta del
fenomeno e sale poi man mano a rintracciarne il disegno e le
finalità, dopo di che procede all’analisi delle relazioni e
dell’impatto di quel fenomeno con l’ambiente.
Piazza Fontana, lo
spionaggio militare e quello industriale, i rapporti di corruzione
che legano gli uomini di potere a un sottobosco di malaffare e di
criminalità. Storia recente dunque, di cui l’autore ha messo in
chiaro le origini storiche che fanno data dalla nascita del regno
d’Italia, raccontando una storia parallela del paese, una storia
che da Rubattino porta dritti dritti all’oggidì. Insomma leggere
Boatti vuole anche dire guardare dal rovescio la storia d’Italia, e
dalla compagnia Rubattino arrivare a Celli, passando per decine e
decine di altri personaggi che hanno avuto nelle loro mani i destini
di grandi gruppi finanziari, istituzioni pubbliche e private, mezzi
di comunicazione , accesso cioè al potere vero, quello che lavora e
tesse nell’oscurità e giunge in tempo reale a lambire in modo
tangibile le vite dei cittadini comuni.
Ragion per cui di fronte
a un titolo così apparentemente irenico, Sulle strade del
silenzio. Viaggio per monasteri d’Italia e spaesati dintorni
(Laterza «i Robinson», pp. 324, € 18,00), il nome di Boatti non
verrebbe in mente neanche a mettercisi d’impegno. E invece è
andata proprio così. Questa volta il giornalista ha preso la sacca
da viaggio e l’amatissimo sacco a pelo e si è trovato a partire
per Finalpia, il primo dei monasteri nei quali ha chiesto e ottenuto
ospitalità, inaugurando così la serie di viaggi della cui
esperienza il libro si sostanzia. In una sorta di fuga da una
situazione di disorientamento personale divenuta insostenibile e
laconicamente lasciata fuori campo. Testo dunque sorprendente, anche
perché per com’è costruito non sembra destinato tanto agli
abituali visitatori di eremi e conventi, quanto a quelli che se ne
stanno ben asserragliati in contesti straurbanizzati, gente che mette
in piedi progetti terreni e ben concreti, e poi fa i conti con
l’orologio per strappare al tempo briciole per l’essenziale. Ed è
proprio partendo dal concetto di tempo che si può tentare un primo
avvicinamento a questo libro anomalo e necessario: i monaci sanno
riportare il computo del tempo all’unità di misura dell’intera
vita umana, sottraendolo alla disintegrazione in ore, minuti e
secondi, che non a caso fanno l’angoscia e la gioia dei seguaci del
thriller. Monaci e monache non hanno mai fretta e non sono mai in
ritardo, non perché a loro si addica in particolar modo la gravitas
che marcava la distinzione sociale patrizia, ma più semplicemente
perché il computo del tempo nello spazio del convento è scandito
all’interno di uno scenario quasi azimutale, di un orizzonte
astronomico il cui asse di riferimento passa attraverso la terra e
l’umanità segnando però la direzione celeste, ed è su quel tempo
che il monaco è sincronizzato ed è su quel tempo che si sente
chiamato a operare.
In tutti i libri di
storia viene raccontato di come si debba ai benedettini la prima
opera di ricostruzione di un’identità culturale devastata e quasi
cancellata, ma quello che dai manuali non può emergere e che qui si
avverte nettissimo, è il senso di forza profonda che traspare da
questi uomini con la tonaca nera che hanno scelto il lavoro, il
silenzio e la preghiera per rendersi più forti e più attivi in quel
mondo che pure sembra abbiano abbandonato. Uno degli aspetti su cui è
richiamata subito l’attenzione del lettore è proprio la relazione
che il cenobio trattiene con l’esterno. Tutti sanno che il
monastero pone a chi voglia penetrarlo un limite preciso fatto di
mura e di regole e che tuttavia questo limite è segnato in modo da
non separare mai in via irrevocabile. Quello che Boatti scopre è
quanto vertiginoso sia l’equilibrio tra l’interno e l’esterno e
quanto su questo equilibrio si costituisca il vero punto di forza dei
conventi: quella stessa porta che difende la dedizione a Dio permette
di accogliere chi bussa in cerca di rifugio, conforto, pace: uno
scambio silenzioso, una sorta di respirazione cellulare. Connesso al
problema del limite è quello della separatezza. Monaci e monache,
guardiani e custodi attivi di uno spazio discontinuo e densamente
vissuto, non sono propriamente mai lasciati soli, né negli ambienti
comuni, né nel chiuso delle celle e nemmeno di fronte ai demoni del
loro passato o del loro presente. Il monastero è un luogo nel quale
l’individuo viene ‘avvolto’ (avvolgere è un verbo che
Boatti usa sempre volentieri) da una forma di cura leggera che si
concretizza nel mantenimento della giusta distanza tra gli individui,
una distanza in grado di garantire insieme difesa e sostegno.
Assolutamente poderoso per la lievità di scrittura e per la
discrezione con cui vengono maneggiati argomenti così gravi, il
testo lavora secondo il doppio registro dell’escludere (la parola
superflua, la volontà individuale, la distinzione dell’ego) e del
costruire (il lavoro, la preghiera, il canto).
Modulato secondo la
direttrice del viaggio, il libro è il reportage di un pellegrinaggio
che porta all’esperienza di una qualità di tempo e di spazio
tangenziali rispetto alla realtà ordinaria, e dallo spaesamento a un
nuovo orientamento, un contatto aurorale con luoghi e persone, il
tutto magnetizzato da un’istanza narrativa che risulta predominante
rispetto a quella espositiva. Libro pieno di curiosità e di storie
in cui il disegno della vita umana e quello del paesaggio vanno a
confondersi. C’è fra Paolo, ovvero Joaquim Rafael da Fonseca, ex
campione nazionale di calcio portoghese, a Serra San Bruno in
Calabria; c’è Enzo Bianchi, il fondatore della comunità di Bose;
ma ci sono anche le storie di Romualdo, il fondatore di Camaldoli,
alle prese con l’imperatore Ottone III, e quella del glicine, la
pianta che con forza gentile e inesorabile piega emblematicamente
anche il metallo. Il monaco è bibliofilo, avvocato, cultore di
astronomia o di botanica, e mai indifferente alla storia. Su e giù
per montagne e colline, avanti e indietro con la storia, per non
perdere di vista il legame tra il presente e il passato, il
giornalista racconta la quieta operosità di Sant’Ilarione nella
Locride, di Bose o di Colle Val d’Elsa e in sottofondo fa scorrere
l'omicidio Ambrosoli, la torta degli appalti legati alle emergenze di
G8 e Abruzzo o il bombardamento di Montecassino.
Il linguaggio è piano e
di passo misurato, così che quando verso la conclusione si fanno
avanti evidenti figure retoriche si intuisce che il congedo è
prossimo: «quando comincia lo scampanio dell’abbazia di Noci il
cielo quadrato pare coprirsi di un velo sonoro». E poco oltre: «Lì
ho avuto conferma che un uomo senza cielo è un uomo senza spazio.
Privato di ciò che è essenziale al suo stare in piedi nel mondo».
Chiave di volta del
libro, in cui spaesamento, solitudine e orientamento si rivelano i
tre atti di una rappresentazione drammatica individuale e collettiva.
Inchiesta anomala e personalissima questa di Boatti, condotta come
esercizio di disciplina per riconquistare il proprio spazio di cielo,
cioè per rimettersi in piedi.
«ALIAS - IL MANIFESTO»,
6 MAGGIO 2012
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