Luigi Pirandello |
Il telegramma era
"vibrante". Mittente Luigi Pirandello. Destinatario Benito
Mussolini. "Eccellenza", vi si leggeva, "sento che
questo è il momento più propizio di dichiarare una fede nutrita e
servita in silenzio. Se l'Eccellenza Vostra mi stima degno di entrare
nel Partito Nazionale Fascista, pregerò come massimo onore tenervi
il posto del più umile e obbediente gregario". "Il momento
più propizio" era in realtà temerario. Il messaggio dello
scrittore arrivava a Mussolini nel settembre 1924, tre mesi dopo il
delitto Matteotti. Il regime appariva malfermo, di incerto avvenire.
Quello dello scrittore
siciliano era un gesto al limite della provocazione. Per gli uomini
di cultura i tempi erano duri. La scelta di campo, drammatica.
Benedetto Croce, quando Pirandello spedì il suo telegramma, aveva
già provato verso il fascismo due sentimenti disparati: simpatia e
pentimento. La fase "romantica" del regime lo aveva trovato
ben disposto verso quel Mussolini che gli descrivevano "come un
popolano impetuoso e anche violento, ma generoso e amante della
patria". Perciò, avrebbe raccontato il filosofo, "io non
mi misi fra gli oppositori". E poi, non c'era re Vittorio
Emanuele III a presidio delle istituzioni liberali? Passato il caos
(Croce non era il solo a pensarlo), la politica dei nuovi governanti
sarebbe rientrata nell'alveo costituzionale, scongiurando la minaccia
di sussulti rivoluzionari a sinistra. In questo modo, Croce riuscì
provvisoriamente a conciliare il dissidio tra la fede liberale e
l'accettazione del fascismo. "Se i liberali", dichiarò il
27 ottobre 1923 in un'intervista al Giornale d'Italia, "non
hanno avuto la forza e la virtù di salvare l'Italia dall'anarchia in
cui si dibatteva, debbono dolersi di se medesimi, recitare il mea
culpa, e intanto accettare e riconoscere il bene da qualunque parte
sia sorto, e prepararsi per l'avvenire".
Benedetto Croce |
L'avvenire indurrà
Croce a cambiare idea. Il suo operoso pentimento contribuirà ad
assicurare alla cultura italiana un residuo di dignità. Attirerà
sul filosofo violenze squadristiche (l'assalto alla sua casa di
Napoli, la devastazione della biblioteca) ma soprattutto reazioni di
sarcasmo impotente. "C'è qualcuno più idiota di Ivanoe
Bonomi?", si chiederà in un enorme titolo il giornale romano
L'Impero. "Sì, Benedetto Croce". Definirlo, sulle
prime pagine, "un cadavere" sarà una prova di lealtà al
regime. Il cui Capo, dopo aver affermato di non aver "mai letto
un rigo" del filosofo, lo chiamerà "imboscato della
storia".
Gabriele D'Annunzio |
Poche grandezze. Molte
miserie. Parecchi travestimenti. La vita culturale si rimodellava
sulla propaganda del regime. A dargli uno stile, suggerendo slogan e
rituali, lavorava già da tempo Gabriele D'Annunzio, il
poeta-soldato, l'eroe di Fiume. Ecco la ricetta, ricostruita dallo
storico Michael A. Ledeen: "Il discorso dal balcone, il saluto
romano, il grido eia eia alalà, il dialogo drammatico con la folla,
il ricorso a simboli religiosi in una nuova ambientazione laica,
l'elogio funebre dei 'martiri' della causa e l'uso delle loro
'reliquie' nelle cerimonie pubbliche". Fu davvero fascista, il
poeta dell'Alcyone? O invece, assorbendo ogni trovata del
Grande Suggeritore, fu invece il fascismo a farsi dannunziano? Nel
suo D'Annunzio politico, Renzo De Felice delinea il lungo
conflitto, mai risolto, fra la passionalità dell'abruzzese e la
scaltrezza politica del romagnolo. Mussolini, consapevole delle
simpatie che il poeta ispirava tra i fascisti, gli mostrava
deferenza. D'Annunzio, incredulo sulla piena riuscita dell'avventura
mussoliniana, non volle o non seppe opporsi alla marcia su Roma. Un
vero romanzo, se si vuole. Dal quale emerge che D'Annunzio "fascista
non fu mai, neppure formalmente". Qualche frase perfida nei
momenti di maggiore estro polemico: "Oggi", scrisse il
Comandante al Duce nel 1923, "i giovani invecchiano
precocemente, cantando Giovinezza!". Qualche messaggio
apologetico, come quello che gli inviò quasi in fin di vita, nel
dicembre del ' 37, quando l'Italia uscì dalla Società delle
Nazioni: "Tu hai soggiogato tutte le incertezze del Fato e vinto
tutte le esitazioni umane... Non vi fu mai una vittoria così piena".
Poi, sul palcoscenico rimase soltanto Mussolini.
Giovanni Gentile |
Il capitolo Gentile
è così ricco che si trema ad aprirlo. Vi si colgono gli intrecci
più complicati fra cultura e potere. Il filosofo superfascista
presiedeva istituzioni culturali assai influenti: l'Enciclopedia
Italiana, la Scuola Normale di Pisa. E dovunque agisse,
riuscì ad allevare, come raccontava Luigi Russo, "nemici e
ribelli al suo fascismo", fino a scendere in polemica con
gerarchi temibili. Storico, ad esempio, il duello che ingaggiò con
il quadrumviro Cesare Maria De Vecchi di Val Cismon, diventato nel '
35 ministro dell' Educazione Nazionale. Fra i redattori della
Treccani, erano in gran numero gli intellettuali avversi al regime:
da Federico Chabod a Francesco Ruffini, da Arturo Carlo Jemolo a Ugo
La Malfa, da Gaetano De Sanctis a Piero Sraffa. Poi, gli allievi di
Gentile, alla Normale e fuori: Guido Calogero, Aldo Capitini, Delio
Cantimori, Carlo Ludovico Ragghianti, Cesare Luporini, Adolfo Omodeo,
Guido De Ruggiero, Tristano Codignola, Armando Saitta. Tutte persone
che prenderanno strade diverse, approdando spesso all'antifascismo
più radicale, lavorando per i pochi editori - Laterza, poi Einaudi -
rimasti indipendenti.
Guido Piovene |
Ma non tutti gli
intellettuali sono Croce, D'Annunzio, Gentile. C'è gente di taglia
minore o minima da cui il regime esige prestazioni umilianti. I più
dignitosi (parlo degli scrittori) si chiudono nella torre d' avorio
della prosa d' arte, o nell'ermetismo poetico. Altri, considerando il
fascismo un male minore per un paese che nell'intimo disprezzano
(viene in mente un Prezzolini) si riparano dietro un velo
cinico-scettico, guardandosi bene dal "remare contro". Ci
sono gli acrobati alla Malaparte, che s'impigliano nei meandri del
regime, reclutandovi protettori e persecutori. Gli scanzonati alla
Longanesi, che si trincerano dietro un perenne ius murmurandi.
O i fascisti della prima ora che, in tempi di normalizzazione
borghese, sfiorano, a forza di malignità, l'eresia. È il caso di
Mino Maccari. Nel Selvaggio, il suo giornale, un antifascista
di pura fede come Carlo Ludovico Ragghianti scoprirà motti
moralmente preziosi. Come questo, riservato alla fascistissima
Accademia d'Italia: "Dell'Accademia pria - scrisse per
cortigianeria. - Or ch'è Eccellenza - scrive per riconoscenza".
Oppure, senza reprimere uno sbadiglio: "Che seccatura -
l'Istituto Fascista di Cultura". La burocrazia del regime,
irrisa da Maccari, non si limita a organizzare conferenze e adunate
letterarie. Scende nel concreto. Quando, nell' 86, è emersa dagli
scantinati di palazzo Chigi una pila di documenti del Ministero della
Cultura Popolare, si sono trovate le ricevute di contributi elargiti
a scrittori anche insospettabili: Longanesi, Malaparte, Alvaro,
Quasimodo, Ungaretti.
Corrado Govoni |
Che repertorio di
maschere umane può essere un regime dispotico! Vi si trovano gli
anziani entusiasti come Giovanni Papini e i retori puri come Ugo
Ojetti, sempre protesi sui colli fatali di Roma ad osannare le
origini classiche del fascismo. Al polo opposto si scorgono i
giovani, come Berto Ricci o Ruggero Zangrandi, che intraprendono un
"viaggio attraverso il fascismo" dagli approdi
imprevedibili e contrastanti. O si è colpiti dai fascisti
irrequieti, come Vittorini o Pratolini, Gatto o Bilenchi, che
compilano riviste di sapore oltranzista per provocare un regime di
cui bramano il tramonto. La generazione allenata durante i Littoriali
e quella allevata nelle riviste di Giuseppe Bottai (l'organizzatore
di cultura più problematico e oggi più frequentemente rivalutato)
fornirà molti nomi ai partiti di sinistra del dopoguerra.
Bruno Cicognani |
A far più rumore sono, è
ovvio, i trombettieri del Duce. Si esibiscono a comando. O anche
senza. Chi costringe ad esempio, nei primi mesi del 1938, uno
scrittore attempato e rispettato, Bruno Cicognani, a proclamare sul
Corriere della Sera l'abolizione del "Lei" e l'
imposizione del "Voi" nelle conversazioni e negli scritti
degli italiani? Ne deriva una comica "campagna", che
nessuno critica. Un poeta discretamente noto, Corrado Govoni, ha
d'altronde espresso, in una poesia rivolta a Mussolini, il mistico
piacere d'ingoiare tutto: "Non vogliamo conoscere - quali sono
le ambiziose tue mire. - La voce del maschio comando - a noi basta di
udire".
Giovanni Papini |
L'effervescente diatriba
intorno ai pronomi - Lei, Voi - è più viva che mai quando, nel
novembre del '38, la Gazzetta Ufficiale pubblica il decreto legge che
sancisce la persecuzione degli ebrei. L'opinione pubblica accoglie
quei provvedimenti con scarsa simpatia. Ma nei circoli intellettuali
un certo entusiasmo per la novità è innegabile. Ma si tratta
davvero di una novità? Già sette anni prima Alberto Moravia,
visitando Giovanni Papini, è stato accolto con una battuta
sconcertante: "Lei collabora alla rivista Solaria. I solariani
sono o zoppi, o ebrei, o omosessuali. Lei è tutte le tre cose".
Moravia cercò di smentire, senza esito, almeno la terza circostanza.
Ora intorno all'antisemitismo s'ingaggia una piccola gara
d'obbedienza. Fra i più zelanti è Guido Piovene, autore d'una
recensione entusiastica a un libro immondo, Contra judaeos di
Telesio Interlandi. A suo parere l' opera soddisfa l'esigenza di
"sentire d'istinto, e quasi per l'odore, quello che v'è di
giudaico nella cultura". Nel suo La coda di paglia (1962)
lo scrittore confesserà poi di aver aderito alle direttive fasciste
"da schiavo, senza sentirsi mai partecipe". Nel '39,
Amintore Fanfani sostiene in un saggio che "per la potenza e il
futuro della nazione gli italiani devono essere razzialmente puri".
A uno storico insigne, Gioacchino Volpe, la legge antiebraica sembra
una tappa verso la costruzione di un'Europa "veramente
solidale".
Paolo Monelli |
Giornalisti famosi esibiscono un antisemitismo
"viaggiante". Dal ghetto di Varsavia ancora in piedi Paolo
Monelli scrive: "Nulla ci pare di avere in comune con questa
schiatta ebraica", di cui sono insopportabili "gli esotici
costumi, i gesti paurosi, l'andare sbilenchi il più rasente al muro
possibile". Malaparte, inviato in Cecoslovacchia, denunzia il
pericolo sociale rappresentato dall'"enorme massa del
proletariato giudaico". Giovanni Ansaldo scoprirà che sono
stati gli ebrei a volere il conflitto mondiale: "i rabbi di New
York, spingendo l'America alla guerra, hanno seguito la tradizione
della razza". Poi ci sono gli ossessi. Per Mario Appelius,
Israele è "traditore del mondo". Secondo Marco Ramperti,
"più che dalla stella gialla gli ebrei si riconoscono dalla
ferocia dello sguardo". Non tutti sono così. Nei ranghi
fascisti, da Bottai a Marinetti, si registrano anche moderazione e
dissenso. Ma ormai siamo in guerra. La voce del "maschio
comando" ha tuonato per tutti, di razza "pura" o no.
“la Repubblica”, 9
maggio 1995
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