Gli eroi sono sempre
giovani e belli, e fin qua ci siamo. E poi non si suicidano,
altrimenti che eroi sarebbero (tanto più in un Paese cattolico, dove
fino a qualche tempo fa ai suicidi veniva negata la sepoltura in
terra consacrata). E da questo punto di vista Francesco Baracca
potrebbe avere qualche problemino.
L’eroe, l’asso
dell’aviazione italiana prima ancora che l’Aeronautica fosse
stata inventata (Baracca, come molti piloti, era un ufficiale di
cavalleria, al tempo si pensava che duellare nell’aria fosse un po’
come duellare lancia in resta in sella a un destriero), con 34
vittorie al suo attivo, quel 19 giugno 1918 forse non è stato ucciso
da un aereo nemico, o dal proiettile sparato da un cecchino
austroungarico, ma da un colpo della sua pistola, suicida per non
morire arso vivo, orrida fine di molti, moltissimi, piloti.
Baracca quel giorno
volava sul Montello, un salsiccione sopraelevato che domina un tratto
del fiume Piave. Era in corso la battaglia del Solstizio, ovvero
l’evento che ha davvero deciso le sorti della Prima guerra
mondiale: l’Austria-Ungheria in quell’offensiva sul far
dell’estate si era giocata il tutto per tutto. Aveva gettato sul
Piave tutto quello che poteva (poco) contando di arrivare a Treviso
in paio di giorni e a Venezia subito dopo. Ma Vienna non si rendeva
conto che l’esito risultava minato fin dal principio, per due
motivi: i contrasti tra i comandanti e perché le truppe erano –
letteralmente – alla fame. Il fronte montano era affidato a Franz
Conrad von Hötzendorf , ex capo di stato maggiore, rimosso
dall’imperatore Carlo e mandato a comandare l’area del Trentino,
dell’altipiano di Asiago e del Grappa. La pianura, invece, era
assegnata a Svetozar Borojević von Bojna – un serbo di Krajina –
detto “il Leone dell’Isonzo” perché per due anni aveva
comandato il fronte meridionale, che gli italiani chiamano Carso e
gli austriaci Isonzo, resistendo senza perdere troppo terreno a
undici battaglie e vincendo quella decisiva, la dodicesima, che gli
italiani conoscono come Caporetto. Conrad vuole attaccare in
montagna, Boroević in pianura (ognuno vuole la gloria per sé,
ovviamente). Vienna invece di puntate sull’una o l’altra opzione,
e concentrare tutte le proprie forze, decide di non scontentare
nessuno dei prestigiosi comandanti (l’Austria è l’Austria) e
quindi l’offensiva comincerà in montagna, tra l’Astico e il
Piave, e poi, in caso di esito negativo, continuerà in pianura.
Ovvero: le forze vengono disperse e la battaglia è persa prima
ancora di cominciare.
Un’altra conseguenza
della battaglia del Solstizio a noi ben nota è La leggenda del
Piave, composta di getto nella notte del 24 giugno 1918 da un
autore di canzoni napoletane, E. A. Mario, pseudonimo di Giovanni
Ermete Gaeta. Questi aveva scritto alcuni celeberrimi hit partenopei
– “Santa Lucia”, tanto per citarne uno – ma lega il suo nome
a quel «il Piave mormorò» che sarà presto sulla bocca di tutti i
soldati e che cambierà per sempre il genere del fiume Piave (in
precedenza si diceva “la” Piave, come femminili erano Sile e
Livenza, mascolinizzati pure quelli per analogia).
Ma ora torniamo a
Baracca. Gli austriaci nel settore del Montello erano riusciti a
passare il Piave e avevano preso la cittadina di Nervesa. Gli aerei
italiani mitragliavano i nemici a bassa quota. Lo Spad del maggiore
Baracca cade in località Busa delle rane, un posto impervio e dalla
vegetazione fittissima. Gli austriaci non se ne curano e gli italiani
– che sanno chi era ai comandi dell’aereo colpito – raggiungono
il corpo dell’asso solo alcuni giorni dopo, il 23, quando le truppe
dell’imperatore erano ormai tornate al di là del Piave.
Baracca risulta essere
stato ucciso da un colpo nell’incavo dell’occhio destro, alla
radice del naso. Il punto è: partito da quale arma? L’abbattimento
del velivolo era stato rivendicato sia dai piloti austriaci Arnold
Barwig e Max Kauer, sia da un cecchino che aveva detto di aver
sparato all’aereo dall’alto di un campanile, oppure potrebbe
esser stato abbattuto da fuoco antiaereo, come avrebbero stabilito
studi più recenti. Rimane però sempre in piedi l’ipotesi che si
sia suicidato. Durante la Prima guerra mondiale i piloti non avevano
paracadute («ne diminuirebbe l’ardimento», decretarono i generali
più stupidi che la storia ricordi) e quindi, se non erano colpiti
direttamente, erano destinati a una morte orrenda: bruciati vivi
nell’aereo in fiamme. Baracca aveva scritto qualche tempo prima che
non intendeva morire in quel modo e che, se fosse precipitato, si
sarebbe sparato. Si dà il caso però che lo Spad con il cavallino
rampante prenda fuoco solo in parte e il cadavere del pilota sia
ritrovato intatto.
La pistola del maggiore
di cavalleria divenuto aviatore non è nella fondina. Il foro di
entrata del proiettile è nettamente più piccolo degli squarci
provocati dai proiettili di mitragliatrice che hanno colpito e
abbattuto l’aereo. Ma il più fulgido eroe italiano non può
essersi suicidato: il suicidio, nella mentalità di allora, è un
atto di vigliaccheria, non di eroismo, quindi si dà inizio a una
grande operazione di propaganda per nascondere la verità. Baracca,
già celebrato in vita, da morto viene quasi santificato. Ai
funerali, a Lugo di Romagna, suo paese natale, partecipa l’erede al
trono, e subito comincia la costruzione del mito che dura ancora ai
giorni nostri, con strade, piazze e persino stadi (a Mestre) e
squadre di calcio (il Baracca Lugo) dedicate all’eroe caduto in
battaglia.
Studi recentissimi
mettono in forse anche la tesi del suicidio, la ferita sulla fronte
non sarebbe di arma da fuoco, ma da impatto. Ovvero Baracca sarebbe
riuscito in qualche modo ad atterrare, avrebbe preso un colpo
tremendo sotto l’occhio, sarebbe riuscito a uscire dalla carlinga e
ad allontanarsi dall’aereo prima che bruciasse, per poi morire poco
lontano, probabilmente a causa di un’emorragia interna. Tante
ipotesi, nessuna certezza. Quel che accadde davvero sul cielo del
Montello 95 anni fa rimane ancora un mistero.
Linkiesta, sabato 30
giugno 2012
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