Ho trovato, nel sito del
“Ponte”, la rivista fondata da Piero Calamandrei, questo articolo
dello storico dell'arte Tomaso Montanari. Mi pare una voce
importante, cui rivolgere attenzione. È possibile che certe sue
affermazioni appaiano estreme e da qualcuna di esse anch'io dissento,
ma di rigore e intransigenza intellettuale oggi c'è più che mai
bisogno. Anche da Fortini o da Sciascia non di rado si dissentiva, ma
come ci mancano voci così autentiche, così autorevoli di critica e
profezia. (S.L.L.)
Il 25 aprile 1945 fu la
voce di Sandro Pertini a chiamare, dalla radio, i milanesi allo
sciopero generale e all’insurrezione. Venticinque anni dopo, nel
1970, un Pertini presidente della Camera così celebrava la festa del
25 aprile: «Noi non vogliamo abbandonarci ad un vano reducismo. No.
Siamo qui per riaffermare la vitalità attuale e perenne degli ideali
che animarono la nostra lotta. Questi ideali sono la libertà e la
giustizia sociale, che – a mio avviso – costituirono un binomio
inscindibile, l’un termine presuppone l’altro; non può esservi
vera libertà senza giustizia sociale e non si avrà mai vera
giustizia sociale senza libertà. E sta precisamente al Parlamento
adoperarsi senza tregua perché soddisfatta sia la sete di giustizia
sociale della classe lavoratrice. La libertà solo così riposerà su
una base solida, la sua base naturale, e diverrà una conquista
duratura ed essa sarà sentita, in tutto il suo alto valore, e
considerata un bene prezioso inalienabile dal popolo lavoratore
italiano».
«Solo così»: cioè
costruendo giustizia sociale. Ma abbiamo fatto il contrario: e oggi,
altri quarantanove anni dopo, ci chiediamo se l’indifferenza, o
meglio la diffidenza, verso quei valori di libertà non si debba
proprio spiegare così. La distruzione di ogni giustizia sociale ha
lentamente distrutto anche la «base solida» per l’idea stessa di
libertà.
Scrivo queste righe in
Portogallo, dove in ogni paesino, non importa quanto piccolo, fervono
i preparativi per la festa del 25 aprile: il loro 25 aprile. Quattro
anni dopo quel discorso di Pertini, il 25 aprile del 1974, la
pacifica Rivoluzione dei garofani metteva fine alla lunghissima vita
dell’Estado novo, il fascismo portoghese. E anche quest’anno
saranno balli in piazza e feste popolari: è il Dia de liberdade, il
giorno della libertà.
Non si cessa di
festeggiare una recuperata libertà: perché si continua a doverla
difendere. Così, guardando al nostro 25 aprile, quello italiano,
attraverso i colori e le sfumature di questo suo fratello più
giovane di quasi trent’anni, se ne delinea un significato
particolarmente aderente alle condizioni in cui oggi, nel 2019,
celebriamo la Liberazione.
Venti minuti dopo la
mezzanotte del 25 aprile 1974 un’emittente cattolica, Rádio
Renascença, trasmise una canzone proibita dalla censura: Grândola
vila morena, che era stata scritta da José Afonso per la Sociedade
Musical Fraternidade Operária Grandolense (Grândola è una
cittadina del sud del Portogallo), una delle prime cooperative e
associazioni operaie messe fuori legge dal regime. Era il segnale
della rivoluzione: dieci minuti dopo iniziarono gli arresti dei
militari fedeli al fascismo. Il testo di quella canzone (qua in
italiano nella traduzione di Riccardo Venturi) appare oggi
particolarmente eloquente:
Grândola, città dei
Mori
terra di fratellanza
è il popolo che più
comanda
dentro di te, o città.
Dentro di te, o città
è il popolo che più
comanda
terra di fratellanza,
Grândola città dei
Mori.
A ogni angolo un
amico,
su ogni volto
l’uguaglianza
Grândola città dei
Mori
terra di fratellanza
terra di fratellanza,
Grândola città dei
Mori
su ogni volto
l’uguaglianza,
è il popolo che più
comanda.
Nella canzone che innesca il Dia de liberdade non si parla esplicitamente di libertà: si esaltano gli altri due cardini della Rivoluzione francese (eguaglianza e fraternità). Si parla del potere del popolo: cioè non solo della democrazia, ma dell’accesso al governo delle classi subalterne, dei più poveri. Della fine dell’oligarchia.
E tutto questo viene
dalla “città dei Mori”, cioè da una delle tante città
intimamente legate al lungo periodo arabo della penisola iberica.
Ribaltando la secolare retorica della reconquista e dell’espulsione
dei Mori, ora una “città dei Mori” è la bandiera di una nuova
età di eguaglianza e inclusione. Non c’è solo la lotta al
salazarismo, ma anche la prospettiva della fine del colonialismo
portoghese e l’apertura a una società giusta, oltre che libera. La
rinuncia a ogni uso contundente dell’identità, a ogni
nazionalismo: l’aspirazione all’umanità come valore fondante
universale.
In una pagina
particolarmente meravigliosa di un meraviglioso libro italiano che
descrive il fascismo portoghese negli anni Trenta (Sostiene
Pereira di Antonio Tabucchi, 1994), il direttore di un giornale
cerca di persuadere il mite e giusto Pereira, responsabile della
pagina culturale a celebrare «Camões, che è il nostro grande poeta
nazionale e fare un riferimento al giorno della Razza, basta un
riferimento perché i lettori capiscano». Ma Pereira resiste, e
obietta, «con compunzione»: «senta, le voglio dire una cosa, noi
in origine eravamo lusitani, poi abbiamo avuto i romani e i celti,
poi abbiamo avuto gli arabi. Che razza possiamo celebrare noi
portoghesi?». Tutto il romanzo parla della progressiva decisione di
Pereira di reagire: e di reagire facendo fino in fondo il
giornalista, e cioè dicendo la verità fino all’urto frontale col
regime. Ma è quella sua garbata e demolitoria risposta
sull’inesistenza della razza portoghese a dire, oggi, la cosa più
importante: la stessa affermata dal simbolo rivoluzionario di
«Grândola città dei Mori». E cioè che il significato più
urgente e profondo del 25 aprile, portoghese e italiano, sta proprio
qui: nel primato della dimensione umana. Nella nostra appartenenza a
un’unica identità: quella umana.
Festeggiamo oggi la
liberazione dal totalitarismo che riduce la persona umana a
strumento. Attraverso la celebrazione dei cruciali fatti dell’aprile
1945; attraverso la solenne riaffermazione che no, fascisti e
antifascisti non erano uguali; attraverso l’esaltazione della
Resistenza parliamo di oggi e di domani, non solo del passato.
Oggi due totalitarismi si
fronteggiano. La destra liberista e la destra neofascista hanno in
comune la riduzione della persona umana a mezzo, a strumento. Ma il
messaggio più profondo del 25 aprile è invece il ribaltamento di
questo paradigma: la persona umana diventa un fine. L’unico fine,
come dirà l’articolo 3 della nostra Costituzione.
Uno spartiacque, questo,
lucidamente individuato da Immanuel Kant oltre due secoli fa (1797):
«Tutto ha un prezzo, o ha una dignità. Ciò che ha un prezzo può
essere sostituito con qualcos’altro come equivalente. Ciò che
invece non ha prezzo e dunque non ammette alcun equivalente ha una
dignità». E ciò che «possiede una dignità, cioè un valore
assoluto in sé», è «l’uomo considerato come persona». L’uomo
«elevato sopra ogni prezzo» perché non è «un mezzo per
raggiungere i fini degli altri, e nemmeno i suoi propri, ma come un
fine in sé: vale a dire egli possiede una dignità (un valore
interiore assoluto) per mezzo del quale costringe al rispetto di sé
tutte le altre creature ragionevoli del mondo, ed è questa dignità
che gli permette di misurarsi con ognuna di loro e stimarsi uguale a
loro». «Dare ad ogni uomo la dignità di uomo»: in questa
sintetica espressione attraverso la quale Piero Calamandrei riassume
il progetto politico della Costituzione nel suo celebre Discorso ai
giovani del 1955 c’è tutto intero il manifesto e il programma
della “rivoluzione” del 25 aprile: ed è questa la rivoluzione
che oggi celebriamo.
Oggi siamo tutti
profondamente irritati, e preoccupati, dai neofascismi espliciti (non
si contano più i sindaci italiani che vengono da Casa Pound), e
dall’altrettanto esplicito disprezzo per il 25 aprile e per i suoi
valori ostentato da Matteo Salvini, il Ministro della Paura, e dalle
sue squadracce. Ma non dobbiamo stare a quel gioco. Il consenso a
Salvini e ai nuovi fascismi si combatte non con le manifestazioni
antifasciste, ma con una cultura e una politica che diano «ad ogni
uomo la dignità di uomo».
Come diceva Pertini,
eguaglianza di fatto e giustizia sociale sono l’unica difesa
efficace della libertà. La retorica identitaria della razza italica
si combatte con più soldi a scuola e cultura: quelli tagliati dai
governi “antifascisti” degli ultimi trent’anni.
La barbarie ci governa,
insomma, da molto tempo. E non ce ne libereremo attraverso il
frontismo, che è l’ennesima mistificazione che racconta di
un’“Italia migliore” (quella che ha smontato il progetto della
Costituzione nata dal 25 aprile…) che oggi sarebbe in guerra contro
“i barbari” (veri barbari, a loro volta: che quel progetto non
hanno mai fatto proprio).
Come credere a questa
favola rassicurante, se perfino il papa dice, in un documento
ufficiale, che «questa economia uccide»? «Questa economia» è il
paradigma socio-economico in cui, da Zingaretti a Pisapia a Di Maio a
Salvini, tutti si muovono, seppur con sfumature importanti al loro
interno. Ciò che li accomuna è l’uso strumentale della persona
umana: che sia per fare profitto precarizzandone la vita e
umiliandone la dignità, che sia per sequestrare i migranti sulla
Diciotti. È questa la continuità che dovremmo saper evidenziare. E
il suo contrasto radicale col progetto politico della Costituzione
nata dal 25 aprile.
Emilio Lussu diceva che
nessuno avrebbe fatto la Resistenza per la «cartapecora di Carlo
Alberto», cioè per il vecchio Statuto Albertino dell’oligarchia.
Ebbene, allo stesso modo nessun giovane innamorato del 25 aprile
combatterà Salvini per la visione del mondo di un Calenda. E,
viceversa, il consenso della Lega è figlio della mostruosa
ingiustizia costruita dai governi precedenti, anche da quelli di
centrosinistra: solo combattendo l’ingiustizia sociale, si combatte
il consenso al nuovo fascismo. «Non può esservi vera libertà senza
giustizia sociale», diceva Pertini. Uguaglianza, fratellanza: «il
popolo che comanda» della canzone portoghese. E una identità
culturale aperta inclusiva, fondata sulla coscienza di una storia
meticcia e di un futuro che o sarà multiculturale o non sarà.
Ecco il messaggio di
questo 25 aprile: giocando in difesa, tra celebrazioni formali e
ipocriti frontismi, non potremo che perdere. Bisogna giocare in
attacco: solo con la rivoluzione della giustizia sociale il 25 aprile
si salva.
Nel sito de “Il Ponte”,
26 Aprile 2019
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