Umberto Coldagelli, che
fu un alto funzionario della Camera dei deputati tra il 1963 e il
1992, si è poi affermato come uno dei più acuti studiosi di
Tocqueville, curando l'edizione di molte sue opere per Bollati
Boringhieri. Nel 2016 gli è stata conferita la cittadinanza onoraria
del Comune di Scheggia, in Umbria, dove era nato, nel 1931. Trovo fra
i ritagli una sua vecchia intervista, che non ricordavo, ma che può
presentare anche per altri, oltre che per me, qualche motivo di
interesse. (S.L.L.)
Roma
Una camicia di maglina
blue, jeans e sandali francescani. Per quanti sforzi si facciano, è
difficile immaginare persona più distante dal cliché dell'alto
funzionario statale. Umberto Coldagelli è stato vicesegretario
generale della Camera e per trent'anni, dal 1963 al 1992, ha vissuto
nel cuore dell'istituto più rappresentativo di una democrazia, ha
visto da dietro tutto quello che è sfilato di piatto sotto gli occhi
di ognuno di noi. Ha lavorato in disparte, assistito i parlamentari
dal centrosinistra all'imboccatura della seconda Repubblica, gomito a
gomito con i presidenti di commissione e poi con chi ha guidato
l'assemblea, Sandro Pertini, Nilde Iotti e soprattutto Pietro Ingrao.
Un giorno di due anni fa venne presentato a Irene Pivetti, da poco
salita sulla più alta poltrona di Montecitorio. Lui era già in
pensione. "Gli dissero chi ero. Mi tese mollemente la mano,
strizzò gli occhi senza neanche vedermi, sfoggiò un sorrisetto di
sovrana circostanza e si allontanò senza dire una parola".
Coldagelli ha maneggiato
tanta, tantissima politica, la politica che sta fuori dalla zona dei
riflettori, che si concentra sulle scelte più che sullo spirito di
fazione. E ne ha afferrato, dice, "la dimensione drammatica, la
difficoltà di contenere gli interessi, di coniugare le volontà".
Vista da questo luminoso salotto con alcuni mobili liberty e tanti
libri d'arte, la politica sembra molto diversa da un tempo. Le sue
funzioni sono sbriciolate e l'idea d'una qualche dedizione al bene
comune è un rottame sulla via dell'ammasso. "Sono tornato in
Transatlantico dopo le elezioni del 1994: non conoscevo nessuno,
quelle sale d'un tratto mi sono parse estranee, osservavo una
tipologia umana diversa, più vistosa. Suonavano i cellulari. Ora
l'immagine si è riequilibrata, ma non solo perché c'è una
maggioranza dell'Ulivo. Anche gli altri hanno preso ad atteggiarsi
diversamente. Ma su questo, mi raccomando, non mi faccia dire
banalità".
L'abbigliamento di questa
afosa mattinata di luglio c'entra fino ad un certo punto con il fatto
che Coldagelli sia tanto lontano dal figurino del Grande Funzionario.
Nel 1963, quando ha partecipato al concorso ("che purtroppo ho
vinto", chiosa), era un brillante studioso di storia e di
filosofia. Ed era comunista, un comunista particolare; uscito dal Pci
nel 1957 dopo aver firmato l'appello dei 101 intellettuali contro
l'invasione sovietica d' Ungheria, era entrato nel gruppo dei
Quaderni rossi, insieme a Raniero Panzieri, Alberto Asor Rosa, Mario
Tronti. Era un estremista, un extraparlamentare che varcava la soglia
di Montecitorio, il luogo più alto di una democrazia "borghese".
Dopo Quaderni rossi, fu la volta di Classe operaia, poi
di Contropiano, le riviste ponderose dell' operaismo che fra
mille torcimenti sondavano come fare una rivoluzione vera nell'area
dove il capitalismo era molto maturo e aveva integrato tutto e tutti.
Fra i collaboratori figuravano Massimo Cacciari, Rita Di Leo. E Toni
Negri. Un giorno, quando diventò deputato con i radicali, Negri lo
abbracciò con calore in pieno Transatlantico, il corridoio che
chiamano dei passi perduti, sul quale si affaccia l'aula e che,
solcato dai parlamentari, sembra il corso di un paese durante la
festa patronale.
Imbarazzo? "Nessuno.
Negri aveva preso una strada molto lontana dalla mia, ma il suo
cervello era di prima qualità. Anche Lucio Colletti era mio
carissimo amico. Avevo frequentato i suoi seminari e non credo di
esagerare se dico che le sue scelte politiche mi hanno procurato
grande dolore. L'ho rivisto dopo tanti anni qualche settimana fa alla
Camera, usciva dall'aula: la sola cosa che ci teneva a dirmi era che
aveva appena fatto un bel discorso". Coldagelli è un testimone
di traverso, un osservatore senza entusiasmo. Ha servito la
Repubblica (sia concesso lo svarione retorico) con poca vocazione,
essendo sbarrate, dopo la morte del suo professore, Federico Chabod,
le porte dell'accademia, ma con rigore inflessibile, imparziale
dedizione. Ha fatto carriera, ma non quanta ne avrebbe meritata. Dopo
essere stato per molti anni capo dello staff di Ingrao, era matura la
nomina a vicesegretario generale. Ma le più alte cariche di
Montecitorio erano precluse a un funzionario comunista. Raccontano,
ma lui si ritrae quando glielo riferiscono, che neanche Nilde Iotti
impiegò molte energie per violare quel tabù: solo nel 1987 la
presidente riuscì nell'intento. "All'inizio nessuno conosceva
le mie idee. Non mi mettevo in evidenza, sdegnavo le ambizioni. Forse
mi giudicavano un po' strano. Fino a che arrivò Cosentino alla
segretaria generale". Francesco Cosentino, uomo potentissimo, un
democristiano il cui nome finì nelle liste di Licio Gelli, il
prototipo del grande mandarino di Stato. "Era scostante,
sprezzante, eppure riusciva a mantenere buoni rapporti con tutti
benché non abbia mai rivelato il suo pensiero. Lui sapeva chi ero".
L'ambiente non era
confortevole. Si diventa funzionari parlamentari dopo un concorso fra
i più duri. Bisogna avere competenze giuridiche, storiche, di
dottrina politica ed economica, dominare la procedura parlamentare.
"I consiglieri hanno di sé una grande opinione, spesso
esagerata e non poche volte ridicola. Molti si sentono parte di una
struttura eterna, discettano all' infinito sul proprio status e
guardano con supponenza i parlamentari, una specie di casuale
passeggero nel palazzo. Io non mi sono mai identificato nel corpo".
Un isolato? "In parte sì, anche se avevo molti amici fra i miei
colleghi, Giuseppe Carbone, che ora presiede la Corte dei Conti, il
costituzionalista Gianni Ferrara, Beniamino Placido e altri ancora".
Negli spazi liberi
Coldagelli leggeva e studiava Tocqueville. "Ero entrato alla
Camera mentre si esaurivano le tensioni rivoluzionarie, restavano i
grandi temi di una società democratica e Tocqueville mi accompagnava
quando mi imbattevo nella difficoltà di far coincidere gli istituti
di una democrazia e il processo democratico, gli interessi dell'homo
democraticus". Ora del grande teorico francese è uno dei
più profondi conoscitori, ne ha curato gli scritti e i discorsi in
un volume di Bollati Boringhieri e sta raccogliendo alcuni saggi per
riunirli in un libro. Coldagelli esce dall'ombra nel 1975, quando
diventa presidente Pietro Ingrao. "L'avevo conosciuto vent' anni
prima, nel 1956. Era venuto a sostenere le posizioni del vertice
comunista sull'Ungheria nella mia sezione universitaria. Io non
intervenni, ma la nostra mozione critica verso i dirigenti fu
approvata e subito dopo la sezione venne normalizzata. L'anno
successivo non mi iscrissi più al Pci. Ci tornai nel 1970, insieme a
Tronti". E ora è nel Pds? "Non credo di avere la
tessera...". Non capisco, o ce l'ha o non ce l'ha... "L'ho
presa, ma forse non l'ho mai rinnovata".
Torniamo a Ingrao...
"Quando venne eletto, mi chiamò a guidare la sua segreteria".
Com'era Ingrao presidente, l'Ingrao comunista, assertore di una
politica che nasceva nei movimenti? "Diede il meglio di sé ed
ebbe riconoscimenti unanimi. Ogni volta che incontro Scalfaro, che
allora era il suo vice, mi ricorda 'i bei tempi con il presidente' .
Era esigente, probo negli impegni. Ha riformato la struttura interna
della burocrazia, e più la Camera aumentava i terreni di
legislazione, più voleva che crescessero la documentazione e la
ricerca, che quello che si realizzava in aula e nelle commissioni
fosse comunicato all'esterno, perché in qualche modo arrivasse fuori
la verità della politica". È vero che quell'incarico a Ingrao
fu una specie di esilio comminatogli dal suo partito? "No,
assolutamente. Si arrivò a lui in seconda, forse in terza battuta
dopo che Pajetta e Amendola rifiutarono. Il Parlamento non contava
quasi più nulla, schiacciato dai partiti e dal governo: e invece
Ingrao lo ha rimesso al centro del circuito istituzionale".
Eppure Ingrao raccoglieva l'eredità di Pertini... "Sì, ma
molte cose in Pertini si risolvevano nel personaggio, nel terrore che
certe sue sfuriate incutevano nei collaboratori". Ci alziamo per
scegliere delle foto. Ne mostra un paio, il taglio delle giacche e i
colori delle cravatte le riportano alla fine degli anni Settanta. "Le
scattarono a un convegno intitolato La città politica. Al
Quirinale c'era Pertini, a Montecitorio Ingrao, in Campidoglio sedeva
Giulio Carlo Argan. Tutto sembrava si potesse risolvere, ogni cosa
pareva a portata delle nostre capacità: discutevamo con gli
urbanisti degli spazi che una città doveva destinare alle funzioni
politiche. Erano in questione il decentramento dei ministeri,
l'allargamento del Parlamento. Oggi i problemi sono gli stessi, ce li
troviamo davanti tali e quali. Sono stati fatti dei tentativi, ma,
cosa vuole, la politica quotidiana prende alla gola".
“la Repubblica”, 28
luglio 1996
Nessun commento:
Posta un commento