“Assolto!
Assolto! Assolto!”: così urlava al telefono al suo cliente Giulio
Andreotti, l’avvocato - oggi ministro - Giulia Bongiorno. Era
l'avvio di una spregiudicata campagna innocentista che ha truffato la
stragrande maggioranza del popolo italiano, in nome del quale le
sentenze sono emesse. Una campagna che aveva e ha tuttora un
obiettivo preciso: minimizzare i rapporti fra mafia e politica che
hanno drammaticamente segnato la storia di questo paese.
È questo il sommario dell'articolo di Giancarlo Caselli, presidente
onorario di “Libera”, contenuto nel recente numero speciale di
“Micromega” intitolato Il paese dell'impunità e
dedicato a Mafia, corruzione e non solo (n.3/2019). Il
fascicolo è proprio da leggere, possibilmente per intero, poiché i
vari articoli compongono un mosaico terrificante. Dall'articolo del
giudice Caselli riprendo qui l'inizio, che ha qualche aggancio con il
presente. (S.L.L.)
Le tappe del processo
Ecco, per sommi capi, lo
svolgimento del processo di Palermo al senatore Giulio Andreotti,
sette volte presidente del Consiglio e 33 volle ministro (nel suo
curriculum anche 26 volte davanti alla Commissione parlamentare
inquirente e 26 volte archiviato).
In primo grado (23
ottobre 1999) c’è stata assoluzione, sia pure per insufficienza di
prove (la vicenda processuale, invece di essere valutala nella sua
interezza, è stata segmentata e dispersa in mille rivoli; per cui, a
fronte di vari giudizi sostanzialmente negativi su singoli gravi
episodi, è mancato un bilancio conclusivo coerente). In appello (2
maggio 2003) la sentenza del tribunale è stata parzialmente
ribaltata. Mentre per i fatti successivi alla primavera del 1980
Andreotti è stato nuovamente assolto per insufficienza di prove, per
quelli antecedenti è stato ritenuto colpevole per aver COMMESSO il
reato contestatogli (associazione a delinquere con Cosa nostra). Il
reato COMMESSO è stato dichiarato prescritto, ma resta ovviamente
COMMESSO.
La Cassazione (28
dicembre 2004) ha confermato la sentenza d’appello anche nella
parte in cui si afferma la penale responsabilità dell'imputato fino
al 1980. Processualmente è questa la verità definitiva ed
irrevocabile.
La sentenza della Corte
d’appello consta di una motivazione di circa 1.500 pagine e di un
dispositivo di poche righe, lette come di regola in pubblica udienza
(presenti quindi giudici, pm, segretari, cancellieri, avvocati,
giornalisti e pubblico). Chiara e forte nel silenzio di tutti, è
risuonata la parola «COMMESSO» e tutti in quell’aula l’hanno
chiaramente udita. Ma pochissimi - allora e poi - l’hanno voluta
capire. A partire dall’avvocato Giulia Bongiorno, allora difensore
di Andreotti e oggi ministro, attenta solo a quel che le conveniva. E
così, subito dopo aver ascoltato il dispositivo, eccola esibirsi
spensierata e felice - in favore di telecamere in un triplice urlo:
«Assolto! Assolto! Assolto!», in collegamento telefonico col suo
cliente. Peccato che una parte essenziale del dispositivo ascoltato
pochi istanti prima dicesse tutto il contrario. Era l’avvio di una
spregiudicata campagna innocentista che ha truffato la stragrande
maggioranza del popolo italiano, in nome del quale le sentenze sono
emesse. Un macigno sulle spalle dell’imputato è stato sminuzzato
se non dissolto a colpi di manipolazioni e insulti al buon senso.
Perché la formula «assolto per aver commesso il reato» non esiste
in natura. È un ossimoro da capogiro. Una contraddizione logica
prima che tecnica.
La Corte d’appello
(confermata, ripeto, in Cassazione) si è basata su prove sicure e
riscontrate. In particolare ha ritenuto provati - insieme ad altre
decisive parti dell’impianto accusatorio - due incontri in Sicilia
del senatore (accompagnato da Salvo Lima e dai cugini Nino e Ignazio
Salvo) con Stefano Bontade, all’epoca capo dei capi, e altri
mafiosi di «rango». Negli incontri (il secondo si svolse nella
primavera del 1980, la data del dispositivo della sentenza che indica
il «dies ad quem» del commesso reato) si discusse di fatti
criminali gravissimi relativi a Piersanti Mattarella, capo della Dc
siciliana, politico onesto che pagò con la vita l’essersi opposto
a Cosa nostra. Principale fonte di prova il collaboratore di
giustizia Francesco Marino Mannoia (teste oculare di un incontro): un
«pentito» rivelatosi sempre analiticamente preciso (già con
Giovanni Falcone) e mai smentito. La Corte d’appello ha
sottolinealo in particolare che l’imputato non ha denunziato le
responsabilità dei mafiosi «in relazione all’omicidio di
Mattarella, malgrado potesse al riguardo offrire utilissimi elementi
di conoscenza». In sintesi, la Corte d’appello ha ritenuto che
Andreotti abbia contribuito «al rafforzamento della organizzazione
criminale», ravvisando a suo carico «una vera e propria
partecipazione all’associazione mafiosa apprezzabilmente
protrattasi nel tempo».
Meritano inoltre di esser
ricordati alcuni specifici punti.
- Contro la sentenza
d’appello la difesa di Andreotti fece ricorso in Cassazione. Ecco
la prova provata, secondo una logica elementare, che non vi fu
«assoluzione» per i fatti fino al 1980. Mai visto, in quasi
cinquant’anni di magistratura, un difensore o imputato che ricorra
contro la sua assoluzione. Non esiste.
- La prescrizione è per
legge rinunziabile, ma l’imputato non lo fece, sperando di poter
essere assolto anche per i fatti fino al 1980; la Cassazione gli
diede però torto.
- Tommaso Buscetta (che
di Andreotti non volle dir nulla a Giovanni Falcone: sennò ci
prendono per pazzi...) già nel 1985 ne aveva parlato al pm
statunitense Richard Martin nell’indagine «Pizza connection».
Martin, che non aveva utilizzato la rivelazione su Andreotti in
quanto ininfluente nella sua inchiesta, confermò la circostanza
(sotto giuramento) in pubblica udienza al processo Andreotti. Con il
che diventa ridicola qualunque accusa di «teorema».
- Ricorrendone tutti i
presupposti, la procura di Palermo esercitò l’azione penale
(obbligatoria) contro Andreotti. Non farlo sarebbe stato illegale,
disonesto e vile. Nessuno ha mai pensato di riscrivere la storia
d’Italia.
- Chi ha nascosto la
verità sull’esito del processo di Palermo non ha voluto elaborare
la memoria di ciò che è stato perché teme il giudizio storico su
come in una certa fase si è (almeno parzialmente) formato il
consenso; è evidente il pessimo servizio che in questo modo si rende
alla trasparenza democratica del nostro paese.
Quest’ultimo punto aiuta a capire perché l’incontestabile verdetto di colpevolezza fino al 1980 sia stato sistematicamente stravolto, occultando la responsabilità penale - accertata con riferimento a un vergognoso delitto - con un «sapiente» processo di beatificazione mediatica. Fino al punto di celebrare il centesimo anniversario della nascita di Andreotti con una solenne cerimonia a Palazzo Madama, col patrocinio del Senato, alla presenza della compiaciuta e ilare presidente Maria Elisabetta Alberti Casellati. Così completando la trasformazione di un colpevole definitivo in un povero perseguitato innocente, costretto a un calvario di una decina d’anni da un gruppetto di magistrati politicizzati, sconsiderati e malvagi: giustizialisti irriducibilmente prevenuti e accaniti nei suoi confronti.
Quest’ultimo punto aiuta a capire perché l’incontestabile verdetto di colpevolezza fino al 1980 sia stato sistematicamente stravolto, occultando la responsabilità penale - accertata con riferimento a un vergognoso delitto - con un «sapiente» processo di beatificazione mediatica. Fino al punto di celebrare il centesimo anniversario della nascita di Andreotti con una solenne cerimonia a Palazzo Madama, col patrocinio del Senato, alla presenza della compiaciuta e ilare presidente Maria Elisabetta Alberti Casellati. Così completando la trasformazione di un colpevole definitivo in un povero perseguitato innocente, costretto a un calvario di una decina d’anni da un gruppetto di magistrati politicizzati, sconsiderati e malvagi: giustizialisti irriducibilmente prevenuti e accaniti nei suoi confronti.
"MicroMega" 3/2019
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