Una recensione del 1982,
scritta da una francesista a quel tempo assai giovane ma già molto
agguerrita, Sandra Teroni Menzella (oggi solo Sandra Teroni); una
lettura a caldo tutt'altro che indulgente. Forse anche una chiave per
rileggere il libro di Simone de Beauvoir di cui si ragiona: ho il
sospetto che il fascino di quel libro, oggi, abbia un nesso con
l'aggressività malamente mascherata dell'autrice contro Jean-Paul
Sartre, con cui aveva a lungo fatto coppia. (S.L.L.)
Simone de Beauvoir e Jean-Paul Sartre |
Sartre e Simone: la
coppia si rompe perché uno dei termini viene a mancare, lui muore.
Lei la ricompone nell’immaginario e la oggettiva in un libro. Un
nome d’autore: Simone de Beauvoir, un titolo letterario: La
cérémonie des adieux, un editore di prestigio (anzi, la
«maison» per eccellenza): Gallimard, la solidità rassicurante di
560 pagine. È il libro che ha lasciato senza fiato chiunque l’abbia
avuto tra le mani, scatenando l’indignazione di chi ha sempre
sospettato che la Beauvoir oltre che una cattiva scrittrice fosse una
persona terribilmente invadente, e mettendo in imbarazzo i suoi
amici, chi l’ammira e le vuole bene.
Il volume è doppio: in
una parte (del 1974) Sartre vi parla interrogato da Simone;
nell’altra (del 1980) è oggetto del racconto di lei. L’ordine di
presentazione è rovesciato: il Sartre assente, quello visto dallo
sguardo di Simone, introduce al Sartre da cui è sollecitata e a cui
è data la parola. La fissità del ritratto, che si impone pur nella
progressione cronologica (il racconto copre gli ultimi dieci anni
della vita di lui) si scioglie nella fluidità della conversazione.
Ma non è facile arrivare alle pagine in cui Sartre e Simone
discutono intorno a un magnetofono, sulla terrazza di un albergo
romano durante l’estate e in autunno a Parigi. Per arrivarci
bisogna passare attraverso 150 pagine che hanno la pesantezza di una
pietra sepolcrale, rimossa per svelare una lunga, penosa fine.
La coppia ricostruita dal
racconto della Beauvoir, lontana dall’immagine armonica che se ne
poteva avere, esaspera lo squilibrio tra i due termini: non quello
del vissuto, bensì quello — altrettanto reale — del momento
della scrittura: c’è un soggetto che parla e un oggetto parlato,
il quale deve la sua esistenza di oggetto immaginario, di terza
persona — quella di cui si parla — a un’assenza che il lettore
sa essere definitiva, la morte. Questo dato, che origina la
scrittura, ipoteca la lettura e impronta la scrittura stessa.
Di Sartre la Beauvoir
aveva già parlato: nella sua autobiografia egli è presente fin dai
primi fuggevoli incontri all’École Normale, prima che lei
diventasse il «Castor». Ma non ne aveva mai raccontato la storia,
anzi a partire da L’età forte (1960) aveva esplicitamente
annunciato silenzi e riserbo: «La mia vita è stata strettamente
legata a quella di Jean-Paul Sartre; ma la sua storia ha intenzione
di raccontarla lui stesso, e lascio a lui questa cura». Qualche anno
dopo usciva infatti Le parole, dove Sartre raccontava a modo
suo la sua storia: in duecento pagine parlava di sé, del suo
rapporto con la letteratura, col mondo, con gli altri, mettendo
insieme pochi brandelli di in passato contenuto nei primi undici anni
di zita. Poi, qualche aneddoto nelle conversazioni con Pierre Victor
e Philippe Gavi (Ribellarsi è giusto) e nelle interviste. Per
il resto, silenzio. In maniera meno limpida e coerente che nel
passato, la scelta di tacere sul proprio privato veniva confermata
anche nel famoso Autoritratto per i settant’anni,
l’intelligente intervista raccolta da Michel Contat nel 1975. In
quanto a Simone, quando, passata la soglia lei sessant’anni,
consegnò ai suoi lettori A conti fatti, le memorie del
decennio ’60, il tracizionale «prologo» si apriva con
un’osservazione sulla «sorta di cannibalismo» di quei critici e
lettori che le avevano rimproverato di aver parlato poco della
propria vecchiezza nel saggio omonimo. È vero che l’impressione di
essere richiesta in pasto non le impediva di proseguire il racconto
autobiografico, anzi finiva con lo stimolarlo; questo tuttavia era
improntato alla massima riservatezza. La propria vecchiezza era
tenuta al riparo da sguardi indiscreti, protetta dallo schermo delle
cose fatte; i libri scritti e quelli letti, i film visti, i viaggi,
gli amici, fino ai sogni accuratamente datati. Come, del resto,
sempre, era stato al riparo il corpo, detto vivace ed esigente, ma
mai mostrato. E così l’amore, il sesso, l’incontro dei corpi, il
desiderio, il piacere, la frustrazione, il rifiuto.
Finché la morte di
Sartre apre lo spazio al racconto di una vecchiezza, alla messa in
campo di un corpo: non la propria vecchiezza e il proprio corpo,
quelli di lui. Simone si riconferma nel suo ruolo di «testimone»,
scegliendo di passare sotto silenzio il proprio vissuto (che permeava
invece il racconto della morte della madre, Una morte dolcissima),
per dire, descrivendo.
Il racconto, si è detto,
abbraccia gli ultimi dieci anni delia vita di Sartre, scanditi nella
loro successione cronologica come in una cronaca; nel ’70 Sartre
aveva 65 anni: questa data diventa il momento iniziale e ufficiale
della sua vecchiezza. Che è decadimento, decomposizione fisica: la
circolazione si inceppa, parti-celle del cervello non funzionano più,
i denti se ne vanno, la perdita della vista, la mano non ha più
forza né capacità di presa, la bocca si torce, le gambe non
tengono, la parola impastata, l’incontinenza urinaria... È
«irreversibile degradazione»; vuoti mentali, assenze, sonnolenze,
ostinata dipendenza dall’alcool e dal fumo, capricci, regressioni,
ebeti ripetizioni... Con ritmo ossessivo, il racconto reiterato dei
sintomi mese per mese crea l’effetto di un crescendo fino al quadro
dell’ultima ospedalizzazione, con il corpo piagato, il blocco
urinario, i sacchetti di plastica appesi, la cancrena.
Toglie dunque il fiato,
questo racconto — anzi, resoconto - che si vuole cosi neutro e
affettuoso (è rivolto agli amici di Sartre, quelli che vogliono
conoscere meglio i suoi ultimi anni), per l’aggressività che fa
trasparire e, soprattutto, agisce. L’altro è spogliato, messo a
nudo e offerto al pubblico nelle debolezze e nelle miserie fisiche,
quelle che con cura si nascondono a sguardi estranei e con cui a
fatica, quando si è costretti, ci si misura. A coloro che «vogliono
conoscere meglio» gli ultimi anni di Sartre, la Beauvoir offre il
ritratto di un uomo rimbambito e il racconto di un rapporto
umiliante, in cui l’uomo rimbambito è trattato appunto come un
bambino o un idiota, sorvegliato, sgridato, imbrogliato, umiliato.
Ridotto a oggetto dallo sguardo dell’altro vincente perché ne sa
più di lui, ed è più forte. Situazione da Huis clos:
«l’enfer c’est les autres».
Il racconto e la
descrizione sono orientati da un confronto col «prima», con
l’intelligenza, la presenza, l’appassionata volontà e capacità
di lavorare, la vivacità del Sartre sano, del Sartre «vero». E dal
confronto con le proprie aspettative, con l’immagine accettata
dell’altro. Quella che sempre più si delinea dal ’70 è la
macabra caricatura di Sartre, la sua immagine degradata, «déchue»,
non un invecchiamento assunto come tale, seguito e capito
dall’interno. «Evidentemente egli soffriva di un’inquietudine
diffusa rispetto al suo corpo, alla sua età, alla morte», leggiamo;
ma di questa inquietudine non ci è detto nulla, nessun tentativo di
comprensione empatica (Sartre con Flaubert): l’inquietudine è solo
ipotizzata, mentre prolifera la descrizione delle manifestazioni del
decadimento. Certo, non si può vivere l’altro dall’interno. Si
può dirlo, però. E, soprattutto, si può tacere.
Ma Simone vuole
testimoniare, far luce sugli ultimi anni di Sartre, sul post-’68 in
sostanza, gli anni del suo avvicinamento ai «mao» e delle sue
discutibili prese di posizione politiche, dal terrorismo alle
questioni arabo -israeliane. Chiarendo ciò che si mormorava in giro
sulle rotture con la vecchia équipe dei “Temps Modernes” e sulla
parte giocata da Pierre Victor-Benny Lévy, mostrando in che stato
fisico e mentale Sartre fosse ridotto, collocando il suo attaccamento
all’ex-leader della Gauche prolétarienne in un
bisogno di esorcizzare la morte, suggerendo che questi lo manipolava
facilmente e lo spingeva a «rinnegare il suo pensiero». E in questo
è chiaro un tentativo di recuperare Sartre a se stesso, o almeno di
sottrarlo a una strumentalizzazione che può durare oltre la sua
morte da parte di chi se ne sente l’erede spirituale.
Ma la testimonianza non
realizza soltanto gli intenti; come si è visto, lascia passare ben
altro. E con la sua forma stessa di testimonianza, dice ancora altro.
Perché con la scelta di quest’ordine di discorso, che
deliberatamente esclude non solo la scrittura letteraria ma anche la
rielaborazione, la Beauvoir compie al tempo stesso un atto —
interviene sulle polemiche post-mortem, ma già iniziate almeno negli
ultimi cinque anni — e un agito: agisce la separazione. «Alors,
c’est la cérémonie des adieux» avrebbe detto Sartre un giorno di
fronte, alle sue difficoltà di separazione. Nel riferirlo, Simone
riflette sul senso della parola «addio», già carica di presagi in
quell’estate del 71. Non sembra invece prestare attenzione
all’altro termine né all’espressione completa e — certo per un
affettuoso omaggio a Sartre — ne fa il titolo del suo libro. Come
nel non detto dell’episodio riferito, separarsi richiede una serie
di precauzioni, e un atto prolungato che acquista l’importanza e
l’ufficialità di una cerimonia che per essere ha bisogno di
entrare in forme e formule ripetute e sacralizzate.
La cerimonia degli addii
si prolunga oltre il narrato e comprende la narrazione stessa.
Letterario, il titolo si
rivela anche crudele: le 150 pagine che seguono e sostengono l’intero
volume sono un atto di questa cerimonia, del processo di separazione
attraverso l’oggettivazione (messa in parole, resoconto, verità ed
esattezza), la presa di distanze, lo svelamento pubblico del segreto.
La perdita viene agita consegnando agli altri — differenziati e non
— la lunga perdita che ha accompagnato la trasformazione finale di
lui e la sua lenta morte.
Passando dal dialogo
privato (impedito dalla morte ma già disturbato dalla malattia) alla
storia del privato di lui per spiegarne le trasformazioni della
figura pubblica. Recuperando e ricongiungendo distanza di età e di
identità: Simone che scrive ha superato i 70 anni e lucidamente
racconta, mette in prospettiva e interpreta il decadimento di Sartre
a partire dai 65 anni, il diverso modo di far fronte alla vecchiaia;
mentre rivela le miserie della vecchiezza dell’altro, mostra una
vecchiezza — la sua — senza miserie né decadimenti.
Rossanda, scrivendo su
“Orsa minore” (numeri 3/4) ci mostra il volto di Simone
eccezionalmente bagnato di lacrime parlando di Sartre. Certo che le
lacrime ci sono, come il corpo e la vecchiezza, ma fuori dal libro.
In un’intimità che né il racconto né la scrittura tradiscono.
“il manifesto”,
domenica 28 febbraio 1982
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