Ho recuperato dal sito di Robertina Carlini ( http://www.robertacarlini.it/?p=163&cpage=1#comment-9 )questo articolo scritto a giugno dello scorso anno per “Vanity fair” con il titolo La pensione ve la paghiamo noi, sui contributi che, per effetto delle leggi italiane, i lavoratori e, soprattutto, le lavoratrici straniere lasciano all’Inps, senza alcuna speranza di poterli un giorno trasformare in pensione. Uno dei commenti parlava di un vero e proprio “apartheid all’italiana” che coinvolge 4 milioni di persone. Non credo che dal 2009 ad oggi la situazione sia cambiata in meglio. (S.L.L.)
Paulina arriva con due pesanti borse della spesa. E’ appena passata al mercato, dopo aver smontato dal turno di notte. “Adesso ci facciamo un caffè, poi parliamo”. La notte è stata turbolenta, un bambino ha avuto una crisi, “ma al pediatrico le notti non sono mai tranquille, ci sono abituata”. E’ infermiera professionale, e nelle corsie ha lavorato per ventitre anni in Moldavia e per cinque anni qui da noi. In mezzo, tra i due ospedali, il lungo tran tran burocratico per avere il riconoscimento del titolo, e altri lavori per lo più come badante o colf a ore. Adesso Paulina Bojoga ha cinquantadue anni e lavora nel più grande ospedale d’Italia, il Policlinico di Roma. Se fosse italiana, le mancherebbe poco alla pensione. Ma non lo è, e non sa se la pensione la vedrà mai. Come la gran parte delle donne straniere che curano vecchi e bambini italiani, arrivate da noi nella mezza età, che all’avvicinarsi dei sessant’anni cominciano a informarsi su cosa sarà della loro vecchiaia e dei contributi che i padroni hanno versato. Per sentirsi dare una sola univoca risposta: niente. La pensione, nella maggior parte dei casi, non ci sarà. E quei contributi resteranno nelle casse pubbliche italiane, dove si sta accumulando, anno dopo anno, un piccolo tesoro nascosto. Il tesoretto delle badanti.
La signora Bojoga prende tutto l’incartamento dal mobile-buffet anni ’60 della casa in affitto dove vive col marito. Foto di famiglia, tra cui quella della soddisfazione più grande, la laurea della figlia. Permessi, documenti. “Ecco la mia busta paga, è tutto in regola”. L’ultima riga ci dice che siamo sui 1.400 euro netti al mese: molto meno delle infermiere italiane che lavorano fianco a fianco con lei, per l’apartheid che vige negli ospedali per cui gli stranieri hanno un altro contratto e un altro datore di lavoro, il più delle volte una cooperativa. Quella di Paulina le versa, di contributi, 93 euro al mese: “La pensione la voglio. Lavorerò altri 10 anni, o comunque tutto il tempo che serve. Ce la farò?”. Bella domanda. Il fatto è che, per capirlo, ogni immigrato che si avvicina ai 60-65 anni comincia un percorso a ostacoli, o un gioco dell’oca che spesso si conclude col ritorno al punto di partenza. La prima casella è la data di inizio del lavoro in Italia. Per chi, come Paulina, ha iniziato a lavorare dopo il ’96, vale il sistema cosiddetto “contributivo”, che detto in soldoni sarebbe: tanto hai versato, tanto prendi. Solo che servono almeno 5 anni di contributi, e il diritto alla pensione a 60 anni scatta solo se l’importo che viene fuori dal calcolatore dell’Inps supera una soglia minima che si calcola moltiplicando l’assegno sociale (383 euro al mese) per 1,5.
L’assegno c’è, anzi no
Insomma: in teoria la pensione contributiva c’è, ma in pratica non si può avere se i contributi pagati sono pochi. Cosa che succede nella grande maggioranza dei casi per le colf e le badanti, che spesso lavorano per anni al nero e anche quando “emergono” hanno contributi molto bassi: “Molto spesso sono ‘segnate’ a 25 ore a settimana – dice Alfredo Zolla, dello Sportello Immigrati della Cgil di Roma – il che vuol dire che se lavorano per 10-15 anni alla fine arrivano a 60 anni con una pensione che sarebbe di 100 euro al mese”. Sarebbe, ma non è: essendo sotto quel tot minimo fissato dalla legge, lo Stato non la paga. Dunque, in quel caso bisognerà aspettare i 65 anni, per avere l’assegno sociale – che però non si prende se c’è un altro reddito in famiglia, e comunque si perde se si lascia l’Italia, o se non si dimostra di esserci stati con residenza “stabile e continuativa” negli ultimi dieci anni. E se si torna a casa, in Moldavia, Filippine o ovunque sia? Attenzione: in questo caso, la legge prevede che la pensione, pur piccolissima, sia pagata comunque. Ma quasi nessuno lo sa, e quasi nessuno dei rimpatriati la chiede. Ciliegina sulla torta: se disgraziatamente la lavoratrice straniera muore in quel lasso di tempo, tra i 60 e i 65, nessuno dei suoi eredi ha diritto alla pensione “di reversibilità”.
L’ingiustizia delle regole
Ines Bautista e Juana Gutierez sono buone amiche. Peruviane, badanti, torinesi, sessantenni. Una mattina sono andate insieme alla sede dell’Inps più vicina, fresche di compleanno. “Ci hanno detto: voi non prendete niente, è inutile chiedere”. Prima ancora che arrabbiata, Juana è sconfortata: “Noi facciamo la dichiarazione dei redditi, paghiamo le bollette, la Rai, paghiamo tutto. Però alla fine non prendiamo niente. Sono delusa da tanta ingiustizia”. L’ingiustizia è nelle regole, ma spesso è ingigantita dal fatto che la situazione non viene spiegata bene agli sportelli: “Io sto in Italia solo da dieci anni, mi hanno detto che servono venti anni di contributi per avere la pensione”. Il che è vero solo per quelli che sono arrivati prima del ’96, non per gli altri che entrano nelle leggi del “contributivo”. Ines, l’amica di Juana, per pochi mesi si trova intrappolata nelle vecchie regole: “Deve lavorare 20 anni, mi hanno detto. Ma come faccio? Già ho sempre mal di schiena, avete presente cosa vuol dire lavorare con gli anziani?”. Ines e Juana lo hanno ben presente: ci hanno lavorato sempre, negli anni italiani. La fatica, lo stress. Le notti, il divieto di ammalarsi. I “buchi” di salario e contributi: “i vecchi muoiono, e noi dobbiamo cercarci un altro lavoro”. Con famiglie che, soprattutto al Nord, fanno di tutto per metterle in regola appena possono – lo dimostrano i dati delle ondate di sanatorie in Italia. “Non è giusto: la mia signora paga 600 euro di contributi all’Inps, dove vanno a finire? Li perdiamo”. Il passaparola che corre tra gli immigrati racconta la verità: quel tesoro resta a noi italiani. “Mi hanno detto che tanti anni fa se uno ripartiva poteva ritirare i contributi dall’Inps”, dice Juana. E’ vero: di quel beneficio, abolito dalla legge Bossi-Fini, hanno usufruito poco meno di 7.000 persone dal ’95 al 2002. Dopo, le casse dell’Inps si sono chiuse per nuovi arrivati.
Ines e Juana sono andate, in cerca di lumi, da un’altra signora peruviana, Margot Ccanto, che lavora come mediatrice culturale presso l’Ufficio pastorale migranti di Torino. E hanno trovato una compagna di tribolazioni: anche per Margot, 58 anni e mezzo, sette anni di lavoro in Italia, l’età della pensione teorica si avvicina senza nessuna certezza. Margot è ingegnere, in Perù ha lavorato per 24 anni prima per un’impresa di costruzioni poi per il ministero dell’Industria: “Ma quando sono partita non avevo i requisiti per chiedere la pensione là, e adesso non li ho per chiederla qua”. Tra “là” e “qua” non c’è dialogo, non c’è burocrazia, non c’è connessione: manca la carta-jolly che solo qualcuno ha, e che si chiama “convenzione bilaterale”. In pratica, la possibilità di unire i contributi versati nei due paesi, per fare un’unica pensione decente. L’elenco dei paesi “in convenzione” fa bella mostra di sé in tutti i patronati e le sedi di assistenza agli stranieri. Ed è sconfortante. In ordine alfabetico: Argentina, Australia, Brasile, Canada, Capo Verde, Città del Vaticano, Principato di Monaco, San Marino, Tunisia, Uruguay, Usa, Croazia, Bosnia, Serbia, Montenegro, Venezuela. Come si vede, con le sole eccezioni di Capo Verde e Tunisia, non c’è nessuno dei paesi di forte pressione migratoria verso l’Italia. Mentre ci sono tutti i paesi dove andavano i nostri emigranti. Un elenco buono per il passato, non per il futuro. Che non serve per la maggior parte delle 700.000 persone che compongono il nostro “welfare delle badanti”: provenienti dall’Est europeo, dal Sud America, dall’Est asiatico.
Un aiuto dall’Unione Europea
In assenza di convenzione, il miraggio si chiama Unione europea. L’hanno già raggiunto le rumene e le polacche, che essendo comunitarie ormai possono fare il ricongiungimento delle carriere e dei contributi. Ci conta un po’ anche Paulina: “forse riesco ad avere la cittadinanza rumena, in quel caso recupero tutti gli anni di lavoro che ho fatto al pronto soccorso in Moldavia”. Ma Paulina ha ancora qualche anno per inoltrarsi nella giungla dei documenti e delle regole previdenziali. Per Ludmila Rosu, che in Moldavia ha insegnato per ventott’anni anni prima di venire a fare la badante e la baby sitter in Italia, il tempo stringe. Ha 60 anni, e vuole tornare al suo paese, dove ha lasciato il marito, la madre, due figli e cinque nipoti. Vuole andare a occuparsi dei suoi, finalmente. Le piacerebbe portare con sé il frutto del lavoro che ha fatto. Ma quando va allo sportello dell’Inps le spiegano che è impossibile, le danno un foglietto incomprensibile con la sua storia contributiva, e neanche le fanno il conto di quanto le spetterebbe: “tanto non ci arriva, signo’. Comunque se vuole il calcolo preciso vada a farselo fare al patronato”. Ci va. All’Inca le spiegano che in realtà, anche dalla Moldavia, a 65 anni Ludmila potrà chiedere la pensione: saranno poche decine di euro al mese, ma è sempre meglio di niente. Ludmila è determinata, e con le carte delle burocrazia italiana ha imparato a convivere: anche se non sarà facile dialogare con l’Inps da Chisinau, ci proverà. Se lo sapessero, ci proverebbero anche i tanti altri che sono tornati o torneranno indietro senza pensione, lasciando il “tesoretto” dei contributi pagati in Italia.
Centomila fortunati
Sostiene l’Inps che l’Italia paga ogni anno 294.000 pensioni a “stranieri”. Solo che, fino all’anno scorso, in quel gruppone non si distingueva tra italiani all’estero e stranieri in Italia: per questi ultimi si può solo fare una stima statistica, che porta gli esperti dell’Istituto di previdenza a dire che sono circa 100-110.000 le pensioni attualmente pagate dall’Italia agli immigrati. Un’altra stima l’ha fatta Carlo De Villanova, economista della Bocconi, autore di una parte del Rapporto Ismu sull’immigrazione: il beneficio pensionistico medio di un italiano è 3.516 euro, quello di uno straniero di 859. E questo non solo perché gli stranieri sono quasi tutti giovani: anche a parità di età, dice lo studio, la probabilità di ricevere una pensione per gli stranieri è molto, molto più bassa. Paulina, Joanna, Ines, Margot e Ludmila ci hanno spiegato perché.
Inchiesta pubblicata sul numero 23, del 10 giugno 2009, di "Vanity Fair"
1 commento:
....che tristezza....che ingiustizia....che schiavitù!
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