Marzo 1953. Nenni e Togliatti in viaggio verso Mosca per i funerali di Stalin. |
Il ternano-folignate Baldassarre ha esaurito nell’ignominia il mandato di presidente Rai.
Lo ha salutato con gratitudine solo il ministro Gasparri. La ragione ufficiale di questa simpatia è il cosiddetto “contratto di servizio”, cui Baldassarre ha dato un forte contributo e dovrebbe migliorare la qualità culturale della Tv pubblica anche a scapito dell’audience (e a vantaggio del concorrente privato).
Ma i veri motivi del feeling sono altri. Primo: Baldassarre ha realizzato l’epurazione che Gasparri aveva chiesto, quella dell’editto bulgaro di Berlusconi (via Biagi, via Luttazzi, via Travaglio, via Santoro). Secondo: è riuscito, almeno in parte, a far passare in Tv il revisionismo storiografico che aveva baldamente propugnato nei convegni di An.
Proprio nei giorni dell’addio a viale Mazzini dell’antico seguace di Ingrao, la Rai ci ha inondato di trasmissioni dedicate a due ricorrenze: i vent’anni dalla morte di Aldo Moro ed i cinquanta dalla morte di Stalin. Il messaggio prevalente nei tanti talk-show su Moro, pieni di vecchi e nuovi democristiani, era che lo hanno ammazzato i comunisti: quelli delle Brigate Rosse sparandogli, quelli del Pci impedendo la trattativa. Un altro messaggio era che gli eredi delle Br, assassini di riformisti come Biagi e D’Antona, trovano il loro humus nel sindacalismo cattivo della Cgil e che la migliore risposta è realizzare le riforme che precarizzano il lavoro. Ovvietà, falsità e insensatezze che nulla hanno a che vedere con Moro, ma giovano a propagare un’opinione di regime.
Da questa robaccia si differenziano le trasmissioni di Minoli, più problematiche, ma con il rischio dell’autocelebrazione. Il curatore presenta come documento una sua intervista al figlio di Moro del 1997, in cui si commenta un suo più antico servizio: una sorta di metatelevisione. Per quanto concerne Stalin, oltre ai documentari e ai dibattiti, nei Tg sono girate una notizia ed una opinione, ripetute fino alla nausea. La notizia è che Saddam Hussein più che un fan di Hitler sarebbe ammiratore del “Maresciallo” Giuseppe; l’opinione era di Paolo Mieli, non ancora designato presidente Rai (e, ovviamente, non ancora silurato), che spezzava una lancia in favore del dittatore georgiano. “Non si può affibbiare tutto a Stalin - spiegava - in Urss gulag e repressione c’erano prima di lui e ci sarebbero state dopo; così in qualsiasi paese dove i comunisti abbiano preso il potere. Il male non è lo stalinismo ma il comunismo”. La tesi, tutt’altro che nuova, è presente anche sui quotidiani. Nel “Corriere della sera”, ad esempio, Giuliano Zincone se la prende con gli ex comunisti, incapaci di ammettere che Stalin “era già tutto in Lenin”. Altri commentatori, usando il concetto di totalitarismo, assimilano “totalmente” Stalin e Hitler. Ci è già capitato di dire del carattere propagandistico di consimili tesi.
Il comunismo del XX secolo ha espresso una teoria-pratica della liberazione ed una teoria-pratica del potere strettamente e quasi indistricabilmente connesse. Procedere ad un bilancio accurato ed impietoso della sua vicenda è assolutamente indispensabile non solo per chi si proponga di “rifondare” il comunismo, ma per chiunque aspiri a superare il capitalismo in direzione dell’uguaglianza, con qualsiasi nome designi questa aspirazione. Ma una cosa è il bisturi della critica, un’altra l’ascia bipenne della propaganda revisionista.
Al tema hanno dedicato un dossier sia “l’Unità” che “Liberazione”, con titoli assai simili (Stalin è morto e Mai più Stalin). Sul giornale fondato da Antonio Gramsci due pezzi, tra gli altri, ci paiono muoversi nella direzione giusta: un saggio di Bruno Gravagnuolo ragiona della storia del Pci, spiegando come dello stalinismo vi fossero più varianti ed usando la categoria di “stalinismo eretico”; un articolo di Aldo Agosti, sulla scorta di Stephen Cohen, denuncia il danno immenso arrecato all’idea di socialismo, senza negare la “montagna di realizzazioni” che sta accanto alla “montagna di delitti inauditi”. Nel complesso meno interessanti ci sono sembrati i materiali contenuti nel quotidiano di Rifondazione (con l’eccezione di un articolo di Antonio Moscato sul “socialnazionalismo”). Curiosa ci è parsa la scelta di ripubblicare un vecchio intervento di Bertinotti: un residuo di “culto della personalità” in un contesto dichiaratamente antistalinista.
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