Dall’inserto de “l’Unità” del 5 marzo 2003, Stalin è morto, pubblicato in occasione del cinquantenario della scomparsa del capo dell’Urss, propongo qui un articolo di Aldo Agosti, studioso del comunismo novecentesco, che mi pare ottimamente imposti la “questione Stalin”, non solo e non tanto dal punto di vista storiografico, ma anche da quello della prospettiva politica. Sul tema vedi anche su questo blog: http://salvatoreloleggio.blogspot.com/2010/10/ricorrenze-da-micropolis-marzo-2003.html - http://salvatoreloleggio.blogspot.com/2010/05/dal-quaderno-di-leonardo-sciascia-la.html - http://salvatoreloleggio.blogspot.com/2009/11/lucio-magri-perugia-lo-smisurato.html - http://salvatoreloleggio.blogspot.com/2009/08/per-trotzkji-68-anni-dalla-uccisione.html - http://salvatoreloleggio.blogspot.com/2010/05/il-figlio-del-calzolaio-marzo-53-nenni.html .
Alla morte di Stalin, il 5 marzo 1953, non accadde quello che molti temevano e altri speravano: lo Stato sovietico non si disgregò, il sistema sociale e politico che Stalin aveva creato in buona parte gli sopravvisse e per molti aspetti si prolungò fino alla fine dell’Unione Sovietica.
Ma la «questione Stalin» sopravvive anche in qualche modo all’esperienza ormai chiusa della rivoluzione d’Ottobre, e investe ancora quasi ogni aspetto della vita di un grande paese come l’ex-Unione Sovietica nel cui corpo, ha affermato uno scrittore russo, ha lasciato «un’orrenda ferita sanguinante». Il posto stesso occupato da Stalin e dallo stalinismo nella memoria di quei popoli non è ancora ben definito: in Russia la percentuale di popolazione che considera Stalin la figura più positiva del Novecento è passata in sette anni dall’8 al 15%. Le pressioni dell’opinione pubblica per ribattezzare Volgograd con il nome di Stalingrado, inscindibilmente legato alla vittoria contro il
nazismo, non sembrano lasciare insensibile nemmeno Putin. Dunque, a cinquant’anni dalla sua morte, Stalin, come è proprio delle figure grandi e tragiche della storia, smuove ancora passioni, tocca nervi scoperti della coscienza collettiva, ripropone interrogativi aperti: e non in Russia soltanto.
Che bilancio si può tracciare del suo operato? Negli anni Ottanta uno storico americano, interprete fra i piú acuti e profondi dello stalinismo, Stephen F. Cohen, ha parlato del «fenomeno Stalin» come di «una montagna con due vette altissime e inseparabili, una montagna di enormi realizzazioni accanto a una montagna di delitti inauditi». Forse senza saperlo, egli riprendeva una notazione di molti anni prima di Palmiro Togliatti, il quale riteneva che in Stalin si assommassero «il massimo di cose buone e il massimo di cose cattive». Nella loro apparente banalità questi giudizi esprimevano la persistente ifficoltà di una valutazione storica complessiva in una fase in cui l’esperienza sovietica non sembrava affatto conclusa. Stalin sembrava aver trasformato una società rurale arretrata e semianalfabeta in una società industriale, urbana, con un notevole grado di istruzione e con un’elevata mobilità verso l’alto. Sotto la sua guida si era realizzato uno sforzo immane per costruire una società nuova. Sotto la sua direzione si era combattuta la lotta davvero eroica del popolo sovietico per la cacciata dell’invasore nazista, una lotta che aveva contribuito in modo determinante alla sconfitta dei fascismi nella seconda guerra mondiale. Dal sistema che Stalin aveva impersonato si era sprigionato, per un intero periodo storico, un impulso capace di liberare energie immense, che avevano contribuito a cambiare la faccia prima della vecchia Europa e poi del mondo.
D’altra parte ben prima che si aprissero gli archivi sovietici nel 1991 si sapeva che il sistema di terrore di massa instaurato da Stalin, gli arresti arbitrari, le deportazioni, le montature giudiziarie, le esecuzioni, i campi di lavoro forzato avevano fatto milioni di vittime innocenti. La trasformazione della Russia in un grande paese industriale è costata un prezzo elevatissimo di vite umane e di risorse materiali. I metodi e gli orrori dello stalinismo sono stati esportati e imposti di forza nei paesi venutisi a trovare dopo la seconda guerra mondiale nella sfera d’influenza sovietica.
A distanza di tempo, però, un bilancio più aggiornato non può non mettere in luce come anche la prima vetta della montagna di cui parlava Cohen fosse corrosa e in ultima analisi minata alla base da quel «massimo di cose cattive» evocato da Togliatti. Il processo di modernizzazione dell’economia e della società sovietica messo in moto da Stalin poggiava fin dall’inizio sulle basi fragilissime di una società civile amorfa e disgregata, ed era affidato, per usare l’immagine di Moshe Lewin, a «una sovrastruttura politica sospesa nel vuoto». Il progetto politico originario del bolscevismo, già di per sé non privo di tratti di autoritarismo giacobino, si dissolse nella realtà dispotica, totalitaria, gerarchica, negatrice dei più elementari diritti di libertà che Stalin avrebbe finito per incarnare. Il peso gravoso della sua eredità impedì al sistema di riformarsi e fu tra i fattori che ne determinarono nel lungo periodo l’implosione: il risultato sarebbe stato un paesaggio di rovine materiali e morali, nel quale ancora oggi si stenta a intravedere i contorni di una democrazia in cammino.
Ogni grande processo rivoluzionario comporta costi umani pesantissimi. Probabilmente, quanto maggiore è il grado di arretratezza economica, sociale e civile della situazione di partenza, tanto più alto è il prezzo da pagare. La Russia di Stalin non ha fatto eccezione a questa regola. Ma nel bilancio conclusivo della sua opera non può non entrare un altro elemento di giudizio. Sotto la dittatura di Stalin è stato deformato e stravolto al punto da renderlo irriconoscibile il patrimonio di idee e di valori che molti avevano visto sul punto di realizzarsi con la Rivoluzione d’ottobre, percepita come la prima rivoluzione socialista della storia. In questo senso il danno recato da Stalin all’immagine del socialismo, alla sua forza espansiva, al suo valore di alternativa storica per l’umanità, è stato nel lungo periodo incalcolabile. Si ripropone così quello che è forse il maggiore paradosso del XX secolo, il fenomeno comunista, capace, sotto l’insegna di una ideologia di cui la realtà dell’Urss e dei paesi del «socialismo reale» divenne sempre più la negazione, di mobilitare le speranze e le energie di milioni di uomini e di donne in lotta per la propria emancipazione, e insieme di sacrificare la dignità la vita di altrettanti.
Da “l’Unità”, 5 marzo 2003
3 commenti:
Eros Barone,Docente di filosofia e storia al Liceo Classico Statale “Andrea D’Oria” di Genova mi ha inviato un ampio commento al testo di Agosti che, per ragioni tecniche, devo dividere in tre parti. Mi scuso (ma dipende da blogspot) e ringrazio
La lunga ombra di un gigante del ‘secolo breve’
Lo scritto di Agosti rientra nella più vieta letteratura denigratoria. In realtà, riflettere sul pensiero e l'opera di Iosif Vissarionovic Giugasvili, detto Stalin (1879-1953), costituisce un’occasione per interrogarsi sul ruolo di una personalità che, dopo aver dominato la scena della politica interna del suo paese e la scena della politica internazionale del mondo intero nella prima metà del XX secolo, ha continuato a proiettare una lunga ombra sugli sviluppi politico-ideologici dei decenni successivi sino ai nostri giorni. Può allora essere utile ricordare il significato di questo soprannome, pronunciando il quale (“Sa Stalina!”, ossia ‘Per Stalin!’) centinaia di migliaia di soldati sovietici combatterono e sacrificarono la loro vita nel corso della seconda guerra mondiale: Stalin, cioè ‘acciaio’, un soprannome che indica due qualità essenziali di questo metallo e la loro incarnazione in un ‘leader’ bolscevico che lo stesso Lenin ebbe a qualificare come “quel meraviglioso geor-giano” (definizione etnica che compare nel sottotitolo di una bella biografia di Stalin scritta da Gianni Rocca).
Seconda parte del commento di Barone
Poiché una figura come questa, così grande nel bene come nel male, non permette di operare un taglio netto fra la leggenda (sia eulogica sia demonizzante), che ben presto si è formata attorno ad essa, e la concreta funzione storica che tale figura ha svolto nel “secolo degli estremi”, proverò ad accendere su questo soggetto ad alta tensione interpretativa cinque ‘flash’, che ne fissano quelli che, secondo la mia percezione, sono i tratti salienti.
Il primo ‘flash’ permette di cogliere, attraverso un episodio avvenuto nel 1927, tanto la dimensione, per così dire, ‘idealtipica’ del conflitto fra due personalità, quali quelle di Trotzki e di Stalin, che rappresentano (non solo) due concezioni (ma anche due vie e due linee) contrastanti della rivoluzione socialista, quanto la solidarietà, per così di-re, ‘antitetico-polare’ che le accomuna nell’àmbito di un periodo ormai concluso della storia del movimento operaio e comunista. Si tratta della riunione plenaria del comitato centrale del partito comunista bolscevico in cui Trotzki, chiamato a rispondere dell’accusa di essere un controrivoluzionario, gridò a un certo punto del suo discorso, volgendosi a Stalin: « Che cosa aspetti, dunque, a farmi arrestare? Quando mi farai arrestare? ». « Non abbiamo fretta – rispose Stalin – ti faremo arrestare il 17 brumaio » [ossia un giorno prima di quel 18 brumaio 1799 in cui Napoleone Bonaparte, attuando un colpo di stato militare, dètte vita ad un modello di azione politica che, nel linguaggio marxista, sarebbe divenuto sinònimo della volontà, da parte di un ‘salvatore della patria’, di impadronirsi di tutto il potere per esercitare, con il sostegno dell’esercito, una dittatura personale].
Il secondo ‘flash’ riguarda la svolta decisiva segnata nel corso della seconda guerra mondiale dalla battaglia di Stalingrado (1943): un evento di cui il filosofo tedesco Ernst Cassirer colse il significato epocale non solo in termini storici ma anche in termini teoretici, effigiandolo come lo scontro decisivo fra la destra e la sinistra hegeliane, rappresentate rispettivamente dalla Germania nazista e dalla Russia sovietica.
Terza parte del commento di Eros Barone
Il terzo ‘flash’ dimostra con quale lucidità nell’analisi comparativa e con quale sen-sibilità per il valore concreto delle persone Karl Barth, uno dei massimi teologi cri-stiani del ’900, abbia tracciato la corretta linea di demarcazione storica che separa (e contrappone) il nazismo e il comunismo: «Bisognerebbe aver perduto ogni buon senso per mettere sullo stesso piano, sia pure per un momento, il marxismo e il ‘pensiero’ del terzo Reich, un uomo della statura di Giuseppe Stalin e quei ciarlatani di Hit-ler, Göring, Hess, Göbbels, Himmler, Ribbentrop, Rosenberg, Streicher. Mentre tutti i progetti del nazismo erano chiaramente irrazionali e criminali, l’impresa che è stata iniziata nella Russia sovietica rappresenta, malgrado tutto, un’idea costruttiva, anche se è perseguita con mani sporche e sanguinanti e con un metodo che giustamente ci disgusta. Essa è sempre la soluzione di un problema, che anche per noi è urgente e grave e che noi, con le nostre mani pulite, non abbiamo ancora debitamente affrontato: la ‘questione sociale’».
Il quarto ‘flash’ lo fece scoccare Concetto Marchesi, latinista e comunista, tracciando nell’intervento all’VIII congresso del PCI, all’indomani del XX congresso del PCUS e al termine dell’‘indimenticabile’ 1956, il memorabile paragone fra «Tiberio, uno dei più grandi e infamati imperatori di Roma», che «trovò il suo implacabile accusatore in Cornelio Tacito, il massimo storico del principato», e «Stalin, meno fortunato, [cui] è toccato Nikita Krusciov».
Il quinto, più che un ‘flash’, è un razzo pirotecnico sparato da un testimone insospettabile, il senatore a vita ed ex presidente della repubblica Francesco Cossiga, recentemente scomparso (la verità a volte ama rivelarsi nelle voci più avverse): «Il marxismo-leninismo è stato una grande ideologia, che ha mosso milioni di persone verso obiettivi di giustizia e di liberazione. Marx è stato il più grande economista classico del XIX secolo e Lenin il più grande teorico rivoluzionario del XX secolo. La forza e il prestigio del marxismo-leninismo sono stati così grandi, che tante persone hanno, proprio per questo motivo, appoggiato e giustificato lo stalinismo» (dichiarazione fatta il 16 aprile 1998 durante la trasmissione televisiva “Porta a porta” condotta da Bruno Vespa).
Eros Barone
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