Un articolo di Roberta Carlini dal sito di "in Genere - Donne e uomini per la società che cambia" ( http://www.ingenere.it/finestre/maricica ) sull'infermiera uccisa da un energumeno il 14 ottobre scorso. Robertina con acume e sensibilità legge dentro i fatti di cronaca i dati dell'economia e dentro i dati economici i caratteri costitutivi di questo tempo sbandato, la tragedia che ci sovrasta. Un testo da far meditare nelle scuole. (S.L.L.)
Di solito a trentadue anni e anche oltre noi italiane ci chiamiamo “ragazze”, mentre Maricica è sempre stata definita nelle cronache “la donna rumena”. Maricica Hahaianu è morta a 32 anni al Policlinico Casilino, non molto lontano dalla stazione Anagnina della metro, dove un maschio italiano l'aveva aggredita dopo un diverbio metropolitano; e non molto lontano dal suo posto di lavoro, Villa Fulvia, che sta lungo la via Tuscolana, sempre in zona Roma Sud, ed è una clinica per la riabilitazione, una struttura privata convenzionata con il servizio sanitario nazionale. Non si è vista molta gente attorno a quel capezzale, o almeno non se ne è letto nelle cronache sull'agonia, sull'attesa di un risveglio dal coma e poi dell'improvviso aggravarsi della situazione. Speriamo che qualcuna delle autorità ci sia andato riservatamente, senza volerne dar mostra – ma ci contiamo poco. Il presidente del X municipio, Sandro Medici, ha annunciato che intitolerà al nome di Maricica il piazzale antistante la stazione; è una buona notizia, sia per il gesto in sé che per il fatto che lì si ritrova una parte della comunità rumena di Roma. Ma Maricica non era solo una “rumena”, era anche una lavoratrice: un'infermiera. Questa parte della sua vita è rimasta un po' in ombra – e lo è ancora più adesso, dopo che alla prima pietà per la sua morte è subentrato un tifo da derby sulle sorti del suo aggressore. Si sono lette e sentite dichiarazioni di alcune sue colleghe; si è raccolto il commento commosso di qualcuno dei malati che l'aveva conosciuta, in quella clinica; ma non si è visto né sentito un dirigente, un padrone, un capo. Non sappiamo da quanto tempo lavorava lì, quanto guadagnava, che prospettive di carriera aveva, cosa (se qualcosa) spetterà a suo marito e a suo figlio dopo la sua morte. Possiamo solo immaginare, sapendo qualcosa di tante sue colleghe.
Maricica, in quanto cittadina della Romania, dal 2007 era anche cittadina europea. Al contrario di tantissime infermiere straniere, potrebbe stata anche essere assunta direttamente da un ospedale italiano – che invece, per una regola che ancora vige, non può assumere alle sue dipendenze cittadini stranieri non comunitari: è questo il pretesto che ha reso normale il ricorso a finte cooperative per assumere gli stranieri. Poiché Maricica era venuta a lavorare qui prima di diventare "comunitaria", è molto probabile che, come tutte le infermiere e gli infermieri stranieri, sia stata assunta tramite una cooperativa. In tutti gli ospedali italiani, dal più grande al più piccolo, succede questo: che lavorino fianco a fianco persone che fanno le stesse cose, per le stesse ore, con le stesse competenze, la stessa età; e che le loro buste paga a fine mese siano radicalmente diverse. Chi lavora tramite la cooperativa guadagna un terzo, anche la metà di meno. Un apartheid in ospedale, motivato – se così si può dire – dall'esigenza di risparmiare (anche se poi parecchie inchieste ben documentate hanno mostrato che alla fine lo stato risparmia ben poco, e lucra tutto il sistema degli intermediari che si infila nel mezzo dell'affare: si veda l'articolo di Francesco Ciafaloni "la corsa all'oro delle infermiere"). Dunque Maricica e le sue colleghe, forza lavoro specializzata e molto richiesta – di quelle che passerebbero tutti i concorsi “a punti” per gli stranieri che le nostre paure si prodigano ad inventare -, sono anche forza lavoro sottopagata, rispetto alla media negli stessi posti di lavoro e per le stesse prestazioni.
Per i sette-otto anni in cui è stata in Italia, Maricica ha pagato le tasse, le bollette, l'abbonamento al trasporto pubblico. Ha pagato un affitto (sicuramente caro, a Roma il prezzo di un miniappartamento ai confini del grande raccordo anulare è sui 6-700 euro al mese). Ha usato il nostro servizio sanitario – forse – quando ha partorito, ma non ha usato i servizi sociali dopo: il bambino è stato rimandato in Romania dai nonni, dove volete che stia a Roma il figlio di una donna che lavora? Ha pagato i contributi, anche, al nostro sistema pensionistico. Forse non li avrebbe mai riavuti indietro, sarebbero rimasti come regalo all'Inps, come succede per gran parte dei lavoratori stranieri, stritolati dai vecchi e nuovi requisiti richiesti dal nostro sistema: prima, con le vecchie regole della ripartizione, e adesso, dai nuovi paletti del contributivo, che comunque richiedono versamenti cospicui per molti anni per arrivare al minimo pensionistico. Certo non li riavrà adesso che è morta.
Ha senso, parlare di tasse e contributi, soldi e cose così, di fronte a una donna morta e un bambino che sta laggiù e ancora non lo sa? Forse no. O forse sì, per ricordarcene la prossima volta che ci troviamo in un ospedale e qualcuno ci sistema la flebo; quando torneremo a discutere dei permessi a punti, da destra o da sinistra; o al prossimo giro parlamentare della legge sulla cittadinanza, che nega il più semplice dei principi: chi nasce in Italia è italiano. A proposito. Il sindaco di Roma ha dato una medaglia al militare che ha fermato l'aggressore di Maricica. Bene. La famiglia di Maricica invece di medaglie non ne ha avute e non saprebbe che farsene. Perché non dare almeno a suo figlio, a titolo di tardivo e certo insufficiente risarcimento, la cittadinanza italiana?
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