10.10.10

Fortini traduttore di Brecht. La mia pedanteria e la libertà poetica (di Cesare Cases)

Alla Libreria Claudiana di Milano, il 26 settembre 1996 si svolse un seminario su Franco Fortini traduttore di Brecht. Vi partecipò Cesare Cases di cui qui ripropongo l’intervento.
Non so assolutamente come Fortini sia pervenuto a Brecht, se attraverso letture casuali o dietro consiglio di qualcuno (forse la moglie Ruth Leiser o qualche amico svizzero, tedesco o italiano, come Emilio Castellani). Per quanto l'Opera da tre soldi fosse già stata messa in scena da Enzo Ferreri nel 1928 a Milano, non credo che l'interesse per l'avanguardia fosse già così vivo nel tredicenne da fargli compiere apposta il viaggio da Firenze. La conventicola dei brechtiani italiani era allora molto piccola (e tale restò fino alla fine della guerra) e non posso essere certo stato io, che mi ero dato corpo e anima all'antagonista di Brecht, Lukács, a iniziare Franco, che seppe poi trattare entrambi col dovuto rispetto. Possedevo certo la Brecht-Fibel, una specie di breviario brechtiano ciclostilato che a me era stato regalato dall'amica di Ignazio Silone, l'indimenticabile Gabriella Mayer, e sapevo a memoria alcune canzoni ivi contenute, ma tutto finiva lì, e poco avevo capito de L'anima buona del Sezuan, uno dei due drammi brechtiani che erano stati presentati al pubblico zurighese in piena guerra.
Per capire Brecht bisognava avere due requisiti: aver sposato la causa del marxismo e quella dell'avanguardia; Fortini li possedeva entrambi, io solo il primo. Il secondo era più importante sia perché connetteva Brecht all'avanguardia russa, senza la quale sarebbe rimasto un isolato (come sarebbe finito per rimanere in epoca staliniana senza la sua tenacia e la sua capacità organizzativa), sia perché costringeva a rinunciare agli ancoraggi borghesi a cui l'arte di sinistra era ancora per molti aspetti legata. Sicché altre scelte del Fortini traduttore (come Döblin) sono spiegabili solo come conseguenze di questa scelta fondamentale. Che la sintesi di avanguardia e rivoluzione nelle sue varianti da Benjamin a Carl Einstein fosse plausibile o meno, questo è un altro discorso che sottintende questioni ancora irrisolte. Quel che è certo è che Fortini, come dimostra tutta la sua residua attività, si incontrò con Brecht grazie a questa comune costellazione.
In essa io entrai, come è naturale, attraverso la via del marxismo. Fu esso ad aprirmi gli occhi per la poesia brechtiana, non le canzoni della Brecht-Fibel... Era un grande poeta anche se non seguiva affatto le regole di Lukács, mentre chi le seguiva come Johannes Robert Becher non usciva dalla mediocrità. Certo il marxismo di Brecht era diverso da quello classico, era più vicino all'utopia, ma era meglio correre questo rischio che finire nelle secche della socialdemocrazia. Fui così pronto per fare da consulente linguistico di Fortini, anche per Brecht, ma qui mi capitò un'unica occasione. Nel passaggio dalla prima edizione del Teatro in due volumi alla seconda in quattro a me fu affidata la revisione della traduzione della Santa Giovanna dei macelli. Fu il primo scontro fra la mia pedanteria e la libertà poetica di Fortini. Ricorderò un esempio perché mi è rimasto impresso nella memoria forse perché ancor oggi non sono ancora convinto che avesse ragione lui. Nel coro finale si esortava Pierpoint Mauler: «Bleib der Eine, stets Entzweite» che Fortini per ragioni di rima aveva reso con «scindi in te le forze tue» (il verso seguente terminava con due). Io gli feci osservare che per amor di rima faceva dire a Brecht l'esatto contrario di quello che intendeva, e cioè che nel capitalismo bisogna necessariamente scindere in due l'uomo umano e l'homo oeconomicus, quella che doveva essere un'unità. Così nella traduzione di Brecht sembrava predicare quella che nel testo è una triste realtà da abolire. Ma che importa? Probabilmente si capisce anche così, e del resto anche la rima ha le sue ragioni. Magari avessimo ancora un Fortini che le rappresentasse con tanta energia, contro i pedanti di qualsiasi scuola.

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