6.2.13

L’anno Mille e il Papa negromante (Valerio Castronovo)

L' anno Mille è stato rappresentato per lungo tempo dagli storici come una sorta di incubo: l'Occidente avrebbe vissuto la fine del primo millennio dell' era cristiana lacerato fra l'angoscia e l'attesa dell'Apocalisse. A questa ondata di paura collettiva avrebbero contribuito non soltanto certe morbose credenze popolari, alimentate dalle dottrine millenaristiche, ma anche le condizioni di grave instabilità politica e sociale che allora affliggevano l'Europa.
In realtà il quadro non era così fosco e drammatico. E' vero che, secondo la maggior parte dei calcoli diffusi dalla letteratura apocalittica, il regno temporale di Cristo, prima del giudizio finale, era destinato a durare mille anni, e che questa profezia aveva convinto vasti strati della popolazione che l'inizio dell'undicesimo secolo sarebbe coinciso con la fine del mondo. Ma è anche un fatto che, fin dai tempi di Sant'Agostino, la Chiesa aveva dato un'interpretazione eminentemente spirituale e simbolica alla fede nel millenarismo, per cui questa era sopravvissuta nel chiuso di alcune sette e conventicole. D'altra parte, l'anno Mille non si presenta affatto come uno squallido crepuscolo, ma piuttosto come un periodo di transizione che prelude per tanti aspetti al rifiorire della civiltà europea.
Proprio negli ultimi decenni del decimo secolo era andato riducendosi il pericolo cronico dell'invasione che aveva gravato sulla cristianità, esposta di frequente alle incursioni provenienti da ogni parte, soprattutto dall'Oriente e dal Mediterraneo per opera dei nomadi delle steppe e dei saraceni. Inoltre stava affermandosi una nuova struttura politica e sociale, quella costituita dal feudalesimo, mentre si percepivano i primi segni di una ripresa economica, assecondata da importanti innovazioni nella tecnica agricola e dal risveglio degli scambi. Tuttavia, l'avvento della società feudale aveva per contropartita l'indebolimento del potere monarchico e il frazionamento della sovranità; all'infuori della Germania, dove l'autorità regia era ancora abbastanza forte, altrove l'ascesa delle più potenti famiglie aristocratiche non assicurava ancora nuovi equilibri, ma anzi era causa di disgregazione e di anarchia politica.
Era semmai la Chiesa, che dopo l'epoca carolingia tendeva a sostituirsi ai sovrani divenuti troppo deboli, ad offrire più sicure garanzie nella difesa dell'ordine e nell' esercizio della giustizia. Quanto poi ai progressi economici, essi erano ancora troppo precari perché le classi umili potessero trarne benefici concreti. Insomma, un periodo, quello alle soglie dell' anno Mille, non più di torpore e desolazione, ma neppure di speranze e certezze; sovrastato piuttosto da una somma di attese e di timori in cui l'ansia per il futuro, che sconfinava nella paura superstiziosa di un'imminente fine del mondo, conviveva con l'istinto di sopravvivenza.
E' quanto si può dedurre anche dal ricco epistolario - una delle rare fonti scritte dell'epoca giunte sino a noi - di Gerberto d'Aurillac, che da umile monaco sarebbe divenuto papa col nome di Silvestro II, nel 999, proprio alla vigilia dell'anno Mille. La sua biografia, ricostruita nei tratti essenziali da Florence Trystram (già autrice di un saggio sulla letteratura dell'Apocalisse), rappresenta perciò un documento utile per comprendere il clima e le vicissitudini di quel tempo (L'anno Mille. Impero e Chiesa nell' Europa medievale, Mondadori, pagg. 392, lire 22.000). Come è noto, Gerberto ebbe fama di uomo dotto, fra i più insigni dell' aristocrazia intellettuale medievale. E a ciò si deve il sorgere di una leggenda che lo dipingerà come "negromante" per la vastità delle sue conoscenze, considerate addirittura demoniache.
In effetti Gerberto, che era di origini assai modeste e aveva ricevuto la sua prima istruzione nel convento benedettino di Aurillac in Aquitania, riuscì in pochi anni ad acquisire un patrimonio culturale del tutto singolare, forse il più completo che potesse allora sognare un letterato. In questo senso si rivelò fondamentale il periodo tra il 967 e il 970, da lui trascorso in Catalogna, dove ebbe modo di approfondire, sulla base di alcune opere arabe, la conoscenza della geometria e dell'astronomia, che vennero ad aggiungersi ai suoi studi di medicina, di geografia e di diritto, oltre che di teologia. Rientrato in patria e destinato all'incarico di scolarca dall'arcivescovo di Reims, Gerberto fu altrettanto rapido nell' apprendere la filosofia e le sue due parti essenziali: la retorica e la logica. I letterati si limitavano per lo più ad accumulare e a glossare quanto attingevano dagli autori antichi, e anche Gerberto non fece eccezione a questa regola. Ma egli possedeva una cultura e una finezza quasi ineguagliabili per il suo tempo, e in più ebbe la fortuna di avere tra i suoi ascoltatori anche Roberto il Pio, futuro re di Francia. Frequentando i grandi e insegnando ai loro figli, Gerberto cominciò così ad annusare il potere e a prendervi gusto, sino a guadagnarsi la stima e l' amicizia dell' imperatore Ottone II, che nel 982 lo nominò abate di Bobbio e quindi titolare di una delle più ricche prebende fra quelle che potesse vantare un "signore" ecclesiastico.
Da allora ebbe inizio una delle più straordinarie carriere che la storia della Chiesa medievale abbia conosciuto. Abbandonata dopo poco tempo l'abbazia di Bobbio (per non fare da capro espiatorio di tutti i rancori italiani contro l'Impero e i suoi funzionari, all'indomani delle disfatte di Ottone nel sud della penisola), Gerberto riuscì a farsi eleggere nel 991 arcivescovo di Reims, su designazione di Ugo Capeto; e, grazie alla protezione dei re dei Franchi e dei sovrani della dinastia di Sassonia, divenne uno dei consiglieri più eminenti delle due principali corti europee. Finché nel 999 gli si aprirono, dopo le porte dell'arcivescovado di Ravenna, anche quelle del papato, che pur egli aveva avversato a suo tempo in nome dell' indipendenza dell'episcopato franco.
Dalla cattedra di San Pietro, che tenne per quattro anni nel mezzo di non pochi trambusti, Gerberto coltivò un grande disegno politico-religioso (condiviso dal giovane Ottone III, che idolatrava Carlomagno), ossia la restaurazione di un dominio universale presieduto di comune accordo dal pontefice e dall'imperatore. Il sogno di una rinnovata respublica cristiana non ebbe modo di realizzarsi pienamente; ma il tentativo di fare della carica imperiale una magistratura di natura essenzialmente morale e pacifica, assicurò al nuovo pontefice il consenso dell'Europa colta e favorì l'integrazione nella comunità cristiana di alcuni popoli slavi appena convertiti. D'altra parte Silvestro II si adoperò per la riforma del clero e del ministero sacerdotale, convinto che solo un rinnovamento delle istituzioni ecclesiastiche avrebbe potuto dar impulso all'evangelizzazione e alla vita spirituale.
Il principio dell'anno Mille anticipò perciò alcuni motivi fondamentali della successiva rinascita religiosa e intellettuale europea del XII secolo. E tuttavia Gerberto non sfuggì all'aura escatologica che circondò la fine del primo millennio e alle credenze aberranti che l'accompagnarono. Lo si raffigurò infatti come un "papa alchimista" o un "papa stregone", che non aveva esitato, pur di aprire lo scrigno della tradizione scientifica araba, a trafficare con i nemici della cristianità; e che era riuscito a issarsi tanto in alto solo perché aveva stretto un patto col diavolo.
Del resto, non sembrava affatto strano che, in tempi così tribolati, la cristianità si fosse scelto un papa tanto singolare da conoscere i segreti degli astri e quelli dell'alchimia, e quindi tale da essere più vicino al demonio che a Dio. A Gerberto, a quest'uomo mediterraneo acuto e sottile che, nonostante il suo temperamento prudente e affabile, aveva suscitato tante invidie e gelosie, toccò così di passare alla storia (attraverso la penna di cronisti ignoranti o malintenzionati) come la personificazione dell'Anticristo, per avere spinto il suo desiderio di sapere al di là delle "colonne d'Ercole" della cultura tradizionale del proprio tempo.
Il suo peccato capitale - a detta di Guglielmo di Malmesbury, che trasmise la nera leggenda del "papa maledetto" - era stato di "possedere tutto ciò che la curiosità umana può sapere di nocivo o di salutare", ma che proprio per questo non rientrava nelle facoltà e nelle cose lecite ai comuni mortali.

"la Repubblica" 25 aprile 1984

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