1.2.13

Storie. Il Calidario di Venturina (di Luca Telese)

Nell’articolo che segue Luca Telese racconta una vicenda imprenditoriale che per molti versi può definirsi di eccellenza. Un luogo abbandonato dall’incuria privata e dimenticato dalle pubbliche istituzioni, recupera – grazie a un uomo coraggioso e controcorrente – sia il passato che il futuro.
Il racconto suscita più di un interrogativo: il più angosciante riguarda la qualità culturale e umana del nostro ceto politico e imprenditoriale, non solo a livello nazionale e regionale, ma anche a livello locale. Storie come quella qui narrata – nel segno del pubblico e/o del privato – potrebbero contarsene e raccontarsene a centinaia, in contesti appena più ricettivi di quelli attuali, quasi sempre refrattari per ignoranza oltre che per avidità. (S.L.L.)

Il Calidario di Venturina ieri ed oggi
Questa è una storia, come a volte capita, apparentemente al contrario. E’ una storia – contro ogni cliché - di un Sud che emigra al Nord e produce ricchezza. E’ - fra l’altro - la storia di un laghetto in cui si può fare il bagno anche il 31 dicembre. E’una storia di Terme etrusche concepite in provincia di Avellino. E’una bella storia italiana, contro ogni stereotipo: una storia di coraggio e di impresa. La storia di un uomo che inventa (ma si potrebbe anche dire re-inventa) un meraviglioso complesso termale in mezzo ad un bosco di ulivi, di fronte alla rovine di una cartiera abbandonata, in un incantato angolo di Toscana. Questa è la storia di quello che oggi è il Calidario etrusco di Venturina e dell’uomo che lo ha costruito, Giuseppe D’Onofrio.
Però, per rimettere a posto tutti i tasselli di questo viaggio nel tempo bisogna partire dai primi anni sessanta. Venturina è il borgo operaio di uno splendido antico municipio: Campiglia marittima. Campiglia è una miniatura medievale arrampicata su una collina, affacciata sul Tirreno. Venturina si sviluppa ai suoi piedi: ci sono case basse e rosse, gli svincoli dell’Aurelia, la stazione, le meravigliose campagne trapuntate di ulivi che si dipanano intorno a Castagneto Carducci. Questa zona passa dal mare alla montagna in un pugno di chilometri, un fazzoletto incantato di prati verdi e boschi, dove di notte ti ritrovi i cinghiali in mezzo alla strada e tutti i maschi adulti (o quasi) hanno il fucile da cacciatore sul camino. Il sottosuolo è una miniera nascosta di vapori e sorgenti: a Larderello, poco lontano, ci hanno costruito persino una centrale termica. Questo è un panorama che custodisce uno snodo di destini: a Sud l’Aurelia porta verso Piombino un frammento di classe operaia che (esiste ancora oggi) va a lavorare in acciaieria. A Nord si va verso la solarità scanzonata di Livorno passando per la maestosità neoclassica di Castagneto Carducci, l’eleganza vinicola di Bolgheri, l’operosità cittadina di Cecina.
In questo scenario toscano, alla periferia di Venturina c’è un posto strano. Tecnicamente è un acquitrino, alimentato da una sorgente di acqua calda. Nei primi anni sessanta lo chiamano ancora «Il Bottaccio».
D’estate qualche temerario ci va a fare il bagno, d’inverno ci vanno gli innamoratini a limonare, tutto l’anno ci va anche chi vuole disfarsi di qualcosa, dalle gomme rottamate in giù: lo usano come una discarica. A completare il quadro di abbandono ci sono le rovine di una cartiera che ha smesso di produrre agli inizi del Novecento: per anni usava l’acqua calda per le sue lavorazioni, poi è diventato uno scheletro diroccato, come il fondale di una scenografia distrutta.
Poi arriva quest’uomo, dal sud. Si chiama Giuseppe D’Onofrio viene da Gesualdo, un paese della provincia di Avellino. Fino a 22 anni ha fatto il cavatore di marmo. Ma è il suo talento che lo ha messo in viaggio facendolo emigrare. A quell’età arriva in questo angolo incantato, perché riesce a scoprire delle cave di marmo a Bagnarello, nella zona di Suvereto. Arriva come arrivano gli uomini che viaggiano, ma trova una moglie e mette radici in Toscana. Poi un giorno vede quel posto – il Bottaccio - e se ne innamora. E non solo: guarda quell’acquitrino e pensa che potrebbe essere tutto diverso, immagina di poter reinventare uno spazio naturale.
Nel 1969 si presenta davanti ad un notaio con 15 milioni di lire e lo acquista. Quando pochi giorni nei bar del paese si diffonde la voce che il cavatore di marmo venuto dal Sud ha fatto dei debiti per comprare l’acquitrino qualcuno ride e qualcuno dà di gomito: «Ha saputo? C’è uno così bischero da spendere soldi per il Bottaccio!». E sembra davvero una follia: 15 milioni per una discarica con acqua calda.
Giuseppe è nato nel 1935: ha 34 anni, nell’Italia del boom in cui tutto sembra possibile. Ha addosso il senso di positività del suo tempo, l’anno del grande boom. Per prima cosa bonifica il laghetto naturale, restituendolo alla sua forma e purgando il fondale da ogni impurità. Poi apre un dancing dove tutte le coppie della zona venivano a ballare con la musica dal vivo. Quindi inaugura un ristorante bar. Ovviamente a questo piccolo mondo Giuseppe gli trova anche un nome. Il cavatore ha una istruzione elementare, ma anche intuito e cervello fino: il vecchio «Bottaccio», viene ribattezzato in «Calidario». Alla moglie che gli chiede come mai abbia scelto proprio quel nome risponde: «Semplice! Ho cercato nei libri. Calidarium, è latino. Ovvero: luogo delle acque calde. O tolto la (a)um che nel mio dialetto irpino significa non pagare».
Il primo Calidario, quindi, è un laghetto dove c’è musica e vita, la gente corre a fare il bagno lasciando le macchine sul ciglio della spiaggetta. Dopo pochi anni, poi, arriva l’ultimo tocco di genio, la piccola grande invenzione che cambia ancora una volta il paesaggio.
Giuseppe si ricorda della sua prima vita di cavatore, e di quanto era bello, per lui, tenere la pietra frammentata tra le mani. Così prova a ricoprire tutto il fondale di ciottoli. Ciottoli piccoli e grandi, ciottoli colorati di ruscello che preservano le infiltrazioni dell’acqua calda, e filtrano ogni fondale: il lago traspira – è questa l’idea – ma è bellissimo poterci camminare dentro con quei piccoli sassi lisci sotto i piedi: come in un ruscello, senza sporcarsi mai.
Alla fine degli anni ottanta il Calidario ha continuato a crescere: è diventato un frammento di paesaggio inedito, diverso. Come definirlo, infatti? E’ artificiale e naturale allo stesso tempo. E’ un
luogo che ingloba e recupera il passato, e dentro questo scenario anche la vecchia cartiera non è più un monumento al passato, ma un presepe che si rianima, con la sua struttura novecentesca
e i suoi mattoni antichi.
Ci sono tre sorgenti che alimentano il laghetto, getti che dal muro della cartiera precipitano nel lago, e - con il tempo - tutto il bordo viene pavimentato con mattonelle di cotto toscano. Dal 1999, al signor Giuseppe si affiancano i due figli Massimo e Luca. E’l’ultimo salto nel futuro, ma anche nel passato: il Calidario diventa il luogo delle Terme etrusche. I due figli di Giuseppe sono cresciuti in questi luoghi. Si dedicano alle ricerche, scoprono che per quelle terme erano passati sia gli etruschi (che lì vicino avevano costruito delle fucine) che gli antichi romani. A 400 metri dal Calidario è stata persino trovata una antica Torricella Caldana edificata da loro con una iscrizione: Ad onta dei seguaci di Galeno dona salute a Venere e Mercurio ignea vena che mi stilla in seno. Si scopre anche che il primo muro di contenimento delle acque era stata edificato nel 1249. Il Bottaccio era stato di proprietà dei conti della Gherardesca, e poi sotto il dominio dei Medici, al punto che Cosimo aveva regolamentato con un editto «gli argini della “Fossa calda” nella palude di Caldana».
Così ti chiedi: che il Calidario sia sempre esistito? Possibile. Oggi, però, esiste questo Calidario, quello che con Massimo e Luca ha continuato a crescere. Sotto il laghetto sono nate sale termali in stile neoclassico con saune e bagni turchi.
Una parte della vecchia cartiera è già un resort (e un’altra parte potrebbe diventarlo presto), il dancing non c’è più, ma il ristorante ora sforna anche eco-piadine. Ci sono gli sconti per le comitive, c’è gente d’estate e d’inverno, da fuori arrivano i tedeschi, innamorati del gioco caldo-freddo. C’è persino una piccola cappella recuperata. C’è un salone per convegni, dove siamo passati anche noi di Pubblico (ma questa è un’altra storia).
Spiega Massimo, il figlio più grande: «Abbiamo continuato in questa impresa con lo spirito di nostro padre e gli occhi di oggi». La temperatura media dell’acqua è di 36 gradi, domani, a Capodanno, qualcuno saluterà il 2013 con il vapore che gli esce dalla bocca e il corpo a mollo nella sorgente. Ci sono tanti piccoli grandi luoghi come questo, in Italia.
Luoghi che sono un po’ magici perché puoi percorrere la loro storia in due direzioni: sia verso il passato che in direzione del futuro.

“Pubblico”, 30 dicembre 2012

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