4.7.14

Donne (Concetto Marchesi, 1952)

L'articolo che segue, del grande latinista Concetto Marchesi, siciliano e comunista, interviene nel dibattito sul progetto di legge che ammetteva le donne in magistratura, ma conteneva il divieto per loro di esercitare il ruolo di Giudice in Corte d'Assise e negava la presenza di donne nelle giurie popolari dei processi in Corte d'Assise. L'opposizione comunista tentò invano di ribaltare tale scelta, frutto delle pressioni della maschile e maschilista casta giudiziaria sulla Democrazia Cristiana, assai sensibile a siffatte sollecitazioni. La legge, approvata sul finire del 1956, conteneva molte limitazioni ed era lontana dal garantire la parità anche soltanto formale, che in magistratura arrivò tra gli Sessanta e Settanta del secolo scorso. (S.L.L.)
1957 - Due tra le prime donne magistrato attendono il loro turno per il giuramento
Vorrei poter dire degnamente della donna e di quella che pare la sua novissima storia. Casi, episodi di resistenza, di coraggio, di pietà hanno sempre provveduto ai narratori materia di lode e di esaltazione della virtù femminile; ma casi ed episodi, frammenti di vita, capacità individuali ed eccezionali che se da una parte servivano ad inalzare una donna, tendevano ad abbassare genericamente l'indole e la natura femminile. L'epoca triste della guerra, questa nostra epoca grandiosa e funesta, ha devastato e ha scoperto. Ha scoperto la viltà, l'ignavia, il tradimento, la santità, l'eroismo; ha scoperto l'anima, anzi la forza dell'anima femminile. Quella donna che da secoli si immaginava o si voleva racchiusa nella casa e solo intenta alle opere domestiche oppure abbandonata alle gioie e alle lusinghe di una spensieratezza mondana; questo essere servilmente laborioso o frivolo e capriccioso, ora si è visto su tutte le scene della nostra storia, dinanzi alla rovina, al pericolo, alla morte, portare dappertutto il ristoro e l'animazione della sua molteplice vita. E quando si disse che la guerra era finita e gli uomini dovettero abbassare le armi e subire la intimazione del vincitore e la soddisfazione di quanti nelle armi dello straniero hanno sempre confidato; quando si disse che era finita la guerra e gli uomini si ritrassero cupi nell'attesa di una giustizia non ancora venuta, le donne restarono sulla linea di combattimento contro la miseria, l'infermità, l'abbandono: contro la delusione, la sfiducia, la collera. E organizzarono senza tregua quell'opera di assistenza che il governo era impotente a volere e ad operare: e fecero per le prime sentire che al di là delle povere porte esisteva il bene di una solidarietà umana. Più tardi la donna fu chiamata a un ufficio che non aveva mai compiuto: decidere dell'istituto fondamentale dello Stato e partecipare alla formazione della rappresentanza nazionale. Ufficio solenne, anzi esercizio di sovranità. Nelle fabbriche, nelle aziende, nei pubblici servizi, nell'amministrazione e trattazione giornaliera e minuta degli affari, nei comuni, nel parlamento, essa è cooperatrice sempre più apprezzata e ricercata.
Perché non deve sedere fra i giudici delle Assise? Molte cose la donna sa vedere, anche se tace, che gli uomini non vedono con il loro cervello più ingombro, affaccendato e presuntuoso. A tanti uomini molte ingannevoli cose si danno a intendere che tante fra le donne non accolgono per vere. Gli uomini dimenticano facilmente i dolori del mondo: la donna è quella che dimentica meno.
Nelle Assise i giudici non sono chiamati a giudicare delle controversie civili o delle cavillose sottigliezze che alla spregiudicata bravura avvocatesca offrono le oscurità o le ambiguità delle leggi e dei contrasti patrimoniali. Nelle Assise il continuo mutevole dramma della vita e dell'anima umana ha il suo vasto e triste scenario; e ai giudici occorre non la perizia delle norme legali, ma l'accorgimento e la sensibilità a cui poco o nulla sfugga delle circostanze che hanno tratto l'individuo al giudizio di altri esseri umani; e nulla o poco sfugga dei moti e degli clementi che sorgono dalla azione in massima parte imprevista r improvvisata che si svolge nell'aula giudiziaria. In questo la donna vale quanto gli uomini, più degli uomini: per la sua più tenace e penetrante curiosità, per la intelligenza e comprensione degli stati passionali, per la maggiore esperienza dei turbamenti psichici, per la più delicata capacità di percepire gli stimoli esterni, gli indizi spesso fallaci e i moti effettivi del volto e dell'animo umano.
Escludere la donna dai giudizi di Assise non è solo una boriosa prepotenza e una dannosa ingiustizia: è una ingiustificabile stolidità.

“l'Unità”, 15 maggio 1952


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