11.7.14

Enrico VIII. Mogli e patiboli (Valerio Castronovo)

"Se uno prende la moglie di suo fratello, è un' impurità; egli ha scoperto la nudità di suo fratello; non avranno figlioli". Di questo passo del Levitico Enrico VIII si servì per impugnare la validità del matrimonio con Caterina d'Aragona, la prima delle sue sei spose. Il brano in questione non dimostrava che prendere la moglie di un fratello fosse tassativamente proibito in qualsiasi circostanza (come nel caso che essa fosse stata precedentemente ripudiata o, cosa più importante, che il fratello fosse defunto).
Sta di fatto che su questa controversa citazione - anziché sulla tesi, assai più efficace, che il primo matrimonio di Caterina non era stato consumato - il re d'Inghilterra impostò per sette lunghi anni la sua battaglia con il diritto canonico per ottenere dal Papa l'annullamento delle nozze con la vedova di suo fratello Arturo. Una battaglia che scatenò una disputa internazionale altrettanto accesa e talora non meno stimolante - per il gran numero di uomini di Chiesa e di cultura spronati a prendere la penna - del contemporaneo conflitto fra polemisti cattolici e protestanti. D'altra parte su questo dissidio si consumò il divorzio fra la monarchia inglese e il papato, che diede origine alla Chiesa anglicana.
Ancor oggi ci si chiede se fosse davvero ineluttabile il ripudio della figlia di Ferdinando d'Aragona da parte del sovrano inglese (che con questo si inimicò la Spagna e l'imperatore Carlo V), e in che misura il suo disappunto per l'inatteso rifiuto di Roma a concedergli il divorzio abbia influito sulla decisione di abbracciare la causa protestante. Se infatti per Enrico quella di avere un figlio maschio che assicurasse la continuità della dinastia era una ovvia necessità, le conseguenze a cui egli andò incontro separandosi da Caterina (che non gli poteva dare il sospirato erede al trono) furono assai più imbarazzanti e pericolose, dal punto di vista politico, di quanto sarebbe accaduto nel caso che egli si fosse rassegnato a lasciar erede la principessa Maria, avuta appunto da Caterina.
Per ben dieci anni, dal 1527 al 1537 (quando nacque infine Edoardo dal matrimonio del re con Jane Seymour) il problema della successione continuò ad avvelenare la vita politica del paese e i suoi rapporti con le altre potenze (anche a causa degli infruttuosi o maldestri espedienti escogitati dal re per risolverlo). Non solo: i feroci tumulti che afflissero il regno di suo figlio e il successo, invece, della sua figliuola più giovane, Elisabetta (ascesa al trono nel 1558), rappresentarono in un certo qual senso una sorta di beffarda nemesi nei confronti dell'ingarbugliatissima vita matrimoniale di Enrico e degli affanni che aveva procurato a se stesso e ai suoi sudditi.
Analoghe perplessità si potrebbero avanzare a proposito della questione religiosa. Una volta scomparsa Caterina nel gennaio 1536 (evento che Enrico aveva festeggiato ballando e torneando), e mandata pochi mesi dopo al patibolo (sotto l'accusa di adulterio) Anna Bolena, la donna di cui il re si era un tempo ardentemente invaghito e che era diventata poi la sua seconda moglie, in teoria non esisteva più alcun ostacolo pregiudiziale ad una eventuale riconciliazione con il papato: nemmeno il verdetto di scomunica decretato a suo tempo dal Concistoro, giacché si potevano pur sempre intavolare delle trattative per un ritiro di quel verdetto. D'altra parte, per affermare la supremazia regia sulla Chiesa secolare, ad Enrico sarebbe probabilmente bastato ciò che aveva già fatto, confiscando monasteri e rendite ecclesiastiche, senza spingersi più in là al prezzo di spaccare il paese in due e di far sopprimere uomini impareggiabili, e oltretutto devoti alla Corona, come Fisher e Tommaso Moro. Di fatto la sua signoria fu molto più severa di quanto non fosse stata quella dei Papi, mentre le speranze che le ricchezze racchiuse nei conventi sarebbero state impiegate a fini educativi e sociali andarono presto deluse.
Di questo avviso è anche l' autore dell'ultima biografia del sovrano, scritta dallo storico inglese John Scarisbrick (Enrico VIII, Il Mulino) sulla base di una minuta esplorazione dei documenti del tempo. Non si può negare infatti che le spinose questioni matrimoniali del re, lo scisma da Roma, l'attacco contro il monachesimo inglese, le esecuzioni che macchiarono di un'ampia chiazza di sangue il nuovo regime, le ribellioni nelle province e la loro repressione abbiano provocato ondate ricorrenti di malcontento e di inquietudini (se Enrico avesse conosciuto i veri sentimenti dei suoi sudditi - si diceva nelle campagne del Kent nel 1538 - "gli sarebbe mancato il cuore"). Sotto ben altri auspici s'era aperto il suo regno nel 1509, sullo sfondo agitato e sfarzoso del primo Rinascimento. C'era stato allora un coro di elogi e di simpatie per il diciottenne sovrano, splendente per avvenenza e prestanza fisica ("molto più bello di ogni altro sovrano della cristianità", come scriveva un affascinato ambasciatore veneto), campione nei tornei e nelle giostre, e in più intelligente ed istruito (tanto da essere in grado di discutere con Tommaso Moro di astronomia come di geologia), che si dilettava di musica e di canto.
E i suoi primi esordi - anche se non erano stati dei più felici, giacché il tentativo di rompere il tradizionale isolamento inglese partecipando alla Lega Santa promossa da Giulio II contro la Francia si concluse con il fallimento della spedizione inviata a riconquistare la Guascogna, perduta nella guerra dei Cento Anni - non avevano smentito questa immagine seducente di un monarca che sembrava impersonare tanto il modello perfetto del principe rinascimentale, generosamente dotato nel corpo e nella mente, quanto l'archetipo del gran signore feudale di tradizione borgognona, tutto preso dalle gesta cavalleresche e dall'amor cortese. D'altra parte la pronta rivincita in battaglia che Enrico si prese nel 1513 su Luigi XII e la sua candidatura nel 1519 al titolo imperiale (ciò che non era mai passato per la testa di nessun sovrano inglese) gli fecero credere di poter svolgere una parte di primo piano sulla scena europea, in competizione con Carlo V e Francesco I. In realtà il gioco di attizzare i contrasti fra i suoi rivali, e di allearsi ora con l'uno ora con l'altro, non diede alla lunga i frutti sperati, a parte un effimero prestigio internazionale. Del resto, l'uomo che sembrava nato con la vocazione del guerriero non riuscì mai a conquistare autentici allori militari, mentre i suoi maneggi diplomatici, se lo fecero apparire talora il pacificatore d' Europa, l'emblema per eccellenza del "principe cristiano", lo lasciarono per il resto a mani vuote, con lo stesso amaro in bocca che gli procurò lo sperpero di tante preziose risorse, sacrificate al suo amor proprio o ai suoi miraggi di gloria.
E tuttavia questo sovrano, prodigo ed arrogante, questo ipocondriaco dal carattere imprevedibile, segnato da una profonda vena di crudeltà e da un' indole sospettosa, fu una figura a suo modo geniale ed affascinante. Non soltanto per il modo con cui portò le insegne della regalità, nella superba convinzione di essere sempre nel giusto e di non trasgredire mai i limiti della correttezza costituzionale, ma anche per i segni che egli lasciò nell'anima e nell'identità del suo paese. Dietro la spietata violenza e la straripante energia di Enrico c'era una autentica forza costruttiva, una volontà realizzatrice che (grazie anche all'apporto di alcuni suoi collaboratori, come Wolsey e Thomas Cromwell) pose le fondamenta della nascente potenza inglese.
In questo senso il re seppe interpretare quasi d' istinto l'impetuosa crescita della società traboccante di orgoglio nazionale, non più disposta a tollerare i privilegi delle vecchie istituzioni ecclestiastiche, pervasa da un pietismo biblico fortemente laico e insieme da un desiderio aggressivo di arricchimento e di ascesa. Certo la flotta inglese, nonostante le cure prestatele, non era giunta a dominare i mari; le vie dell' oceano Atlantico non si erano ancora dischiuse, l'erario, dopo tante avventure, era in condizioni disastrose e la "vigna" della riforma aveva bisogno di nuovi operai. In compenso, nei suoi 37 anni di regno Enrico edificò un potere monarchico saldo ed efficace, se non per la sua lungimiranza di statista, almeno per la fredda determinazione con cui adoperò la scure e per la sagacia di cui diede prova nello scegliere dei ministri abili e realistici.


“la Repubblica”, 29 luglio 1984  

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