11.7.14

Giappone. Quando McArthur liberò i mafiosi (Paolo Argentario)

Nei primi anni 80, al tempo del grande successo del “modello economico giapponese” il quotidiano comunista “il manifesto” pubblicò a puntate un accurato studio di Paolo Argentario che di quel modello esaminava le oscure origini. La prima puntata era dedicata al lavorìo degli occupanti statunitensi dopo la sconfitta militare del Giappone nella II Guerra Mondiale, a partire dal ruolo del generale McArthur. Ne riprendo un ampio stralcio: credo che – come è successo a me – altri lettori italiani e siciliani proveranno una sgradevole sensazione di déja vu. (S.L.L.)
Il generale Usa McArthur e l'imperatore del Giappone Hiro Hito
Il compito di «democratizzare» il Giappone — all'Indomani della seconda guerra mondiale — fu avocato, come è noto, dagli Usa e delegato al generale McArlhur, comandante supremo dello forze alleate nel Purifico. Il « programma» prevedeva molte altre cose, la distruzione degli oligopoli familiari (zaibatsu), la riforma istituzionale ed il disarmo perpetuo, disarmo che venne poi sancito nell'art. 9 della nuova Costituzione (dettata articolo per articolo dagli «esperti» di Mc Arthur alle recalcitranti autorità giapponesi).
McArthur si trovò ben presto a lottare con i suoi stessi consiglieri, inviati in fretta e furia dal Dipartimento di stato per evitare di «consegnare il Giappone in mano ai comunisti». C'erano stati i primi scioperi, le prime occupazioni e la nascita di un movimento di classe che non faceva mistero di voler gestire autonomamente il processo di «democratizzazione». La «sterzata» imposta da McArthur ha una data precisa, il primo febbraio 1947, quando uno sciopero generale organizzato dai sindacati legati al partito comunista minacciava di portare a Tokyo 5 milioni di lavoratori con lo scopo dichiarato di far cedere il governo «fantoccio» di Shigeru Yoshida e formarne uno di unità nazionale.
Lo sciopero venne proibito dalle autorità americane e nel giro di un palo di settimane si concluse l'operazione mecha-mecha: dalle patrie galere vennero liberati decine di migliaia di criminali di guerra, mafiosi e vecchi padroni degli zaibatsu, che nel frattempo erano stati rimpiazzati da sindacalisti e giovani dirigenti del PC giapponese.
Basti per tutti l'esempio del carcere di Sugamo, dove erano stati rinchiusi i principali responsabili della guerra. In una cella c'erano Ryochi Sasagawa, Nobusuke Kishi e Yoshio Kodama: il primo è attualmente presidente di un centinaio di associazioni culturali-sportive (karaté, kendo, etc.) e boss incontrastato del mondo delle scommesse, dalle quali trae i fondi per corrompere buona parte del partito al governo; il secondo, Kishi, è stato per molti anni primo ministro e proconsole americano ed ora continua ad esercitare un vasto potere sia come «consulente supremo» del partito liberaldemocratico, sia attraverso una serie di società finanziarie Usa al quale è collegato, insieme a suo genero, l'attuale ministro del Commercio e dell'industria, Shintaro Abe. Kodama, infine, è il boss incontrastato della 'ndrangheta giapponese (yakuza), leader riconosciuto di una ventina di movimenti eversivi di destra, intimo amico del famigerato Reverendo Moon e coinvolto in quasi tutti i più recenti scandali del paese, compreso l'affare Lockeed per il. quale dovrebbe essere condannato entro la fine di quest'anno. Il «trio di Sugamo» non va comunque sopravvalutato: nello «staff» americano che gestì il «nuovo corso» troviamo, infatti, gli stessi industriali, gli stessi banchieri, gli stessi «esperti» del Pentagono che proprio in quegli anni si opponevano strenuamente al processo di «denastizizzazione» della Rft e al governo di unità nazionale in Italia, nella speranza di legare il futuro economico di questi paesi alle fortune e ai profitti delle multinazionali che rappresentavano. Tra gli anni '48-'52 troviamo a dirigere l'AcJ (American Councll of Japan) personaggi come i fratelli Dulles (Allen e John Foster, già segretario di Stato), consulenti legali dell'Impero Rockfeller; Douglas Dillon e William Draper (dirigenti della Cia); John Mc Cloy, ministro degli esteri dell'Itt ed ex presidente della Chase Manhattan Bank, intimo amico di Kodama, Chang-kai Shek e Sukarno e un certo Compton Pakenham, che più tardi divenne capo dell'ufficio di corrispondenza di Newsweek a Tokyo. Il presidente dell'Acj, guarda caso, era Joseph Grew, ex ambasciatore Usa In Giappone e ex sottosegretario di Stato, che nell'immediato dopoguerra aprì a Tokyo il più grande studio di consulenze commerciali, prima di ritirarsi nella sua piantagione di canna da zucchero nelle Hawaii e di presiedere (fino al 1971) il «Comitato internazionale per l'esclusione della Cina dall'Onu».
Il ruolo dell'Acj risulta evidente da un rapporto segreto finito qualche anno fa nelle mani di un giornalista americano, John Roberts, autore fra gli altri di Mitsui, tre secoli di «affari» alla giapponese. L'autore del rapporto, ormai pubblico, parla di una serie di incontri avvenuti a Tokyo nell'autunno 1949, pochi mesi prima della visita ufficiale di John Poster Dulles, divenuto nel frattempo Segretario di stato Usa. Fu in quei mesi che tra una bottiglia di sakè, un whisky e qualche cospicua bustarella si gettarono le fondamenta di un governo conservatore e filoamericano, un governo che, giunto ai giorni nostri, non si preoccupa di mentire spudoratamente al popolo giapponese, ad esempio per quanto riguarda la presenza di ordigni nucleari all'Interno delle basi militari Usa.


“il manifesto”, 21 luglio 1982

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