12.7.14

Teatro italiano dell'Ottocento. Vince il dialetto (Luciano Codignola)

Il soprano Livia Berlendi in 'O mese Mariano,
libretto di Di Giacomo dal dramma omonimo
L'impresa einaudiana dedicata al Teatro Italiano e diretta da Guido Davico Bonino è giunta al decimo volume, con questi tre ultimi usciti (La commedia e il dramma borghese dell'Ottocento, a cura di Siro Ferrante, tre tomi). L'opera è molto utile, corredata com'è da introduzioni approfondite e da appendici dedicate all'organizzazione, alla messinscena, alla recitazione e alle teorie di quel teatro, qui rappresentato da Giraud, Nota, Bon, Ferrari, Giacomettti, Bersezio, Torelli; e da Ferravilla, Scarpetta, Verga, Praga, Bertolazzi, Di Giacomo, Giacosa. E subito, a prima lettura, o rilettura, vien fatto di pensare quanto poco felice sia stato quel secolo per la nostra commedia e soprattutto per il dramma.

Parodia del melodramma
Se dovessimo giudicare dal piacere che ci possono ancora dare quei testi, ne dovremmo salvare pochi: Le miserie d'monssù Travet di Bersezio, Miseria e nobiltà di Scarpetta, El nost Milan e La povera gent di Bertolazzi; e 'O mese mariano di Di Giacomo oltre alle Opere del maestro Pastizza di Ferravilla. Sono tutti scritti in dialetto, vi ricorre puntuale il tema della miseria popolare, e vi si inaugura un genere che avrà fortuna, la parodia dell'opera lirica. Vi si nota immancabile la presenza del teatro francese (le «vera alluvione» di D' Amico) e l'imitazione goldoniana, sempre presente nello sfondo (vedi Bon e Ferrari). Ma allora, si chiederà, Ferrari? Giacometti? il gran Verga? l'autorevole Praga? il felicissimo Giacosa? Temo ohe dovremmo adattarci a considerarli, gramscianamente, una «produzione provvisoria » teatrale.
Se nella commedia e nel dramma avessimo avuto un solo uomo come Rossini o Verdi, oggi queste domande forse non ce le porremmo. Ma quel «sublime accidente» che è la comparsa di un grande artista, non si verificò. Certo, anche nell'Ottocento gli italiani scrivevano un numero incredibilmente alto di commedie e drammi, e se la quantità bastasse a fondare un teatro nazionale, il nostro sarebbe da tempo rigoglioso. Purtroppo non basta, e non a caso gli scrittori lamentavano la mancanza di una tradizione comica in lingua.
Anche da questo verso, cioè, emerge soprattutto ciò che la nuova classe dirigente dell'Italia unita avrebbe potuto fare e non fece, o fece in modo insufficiente. Da una parte, doveva aprirsi alle altre grandi culture d'Europa (e qui peraltro si registrano i migliori risultati); e dall'altro, coinvolgere nel discorso nazionale le sterminate plebi per le quali l'italiano era e restava una lingua straniera. Nel 1861 pare che gli italiani in grado di parlare l'italiano fossero l'uno per cento circa: tutti gli altri usavano il dialetto o un'altra lingua. Di più, tre italiani su quattro erano analfabeta (e dovettero fare i conti con le truppe austriache, i cui analfabeti non toccavano neanche il 2%!). Per contro, due soli italiani su cento potevano far udire, col voto, la loro voce. La nostra restava una società sostanzialmente agricola, nonostante le “cento città”, fortemente policentrica e dotata di scarsissima mobilità. Il compito di fornire una lingua comune a tutto il paese si trovò così nelle mani di una piccola minoranza.
Si sa come si promosse d'imperio la lingua franca voluta dall'asse Torino-Firenze, e fregiata dal nome del gran Manzoni. Strumenti principali di questa italianizzazione degli italiani furono la scuola elementare obbligatoria e il servizio militare. Bene o male, una certa « koinè » finì per formarsi, ma Dio sa quanto goffa, artificiale e inespressiva, buona tutt'al più per la gestione delle Regie Poste. Ma di questo non dovevano troppo preoccuparsi gli scrittori di poesia, di narrativa e di saggistica. Leopardi prima, e poi Manzoni e lo stesso Verga s'erano ben fatti intendere dai loro lettori. Ma da quelli che non sapevano leggere? e che avrebbero potuto avere nel teatro il loro momento di scambio e di sfogo? In siffatte condizioni tentare una commedia o un dramma in lingua parve una «fisima», e i più accorti scelsero la via più piana ed economica. Il dialetto era uno strumento pronto, perfettamente intelligibile e ricco di possibilità espressive, soprattutto nel registro comico.
Senonché il dialetto esprime di preferenza contenuti che oggi diremmo pertinenti al privato, e privilegia i valori del sentimento, quand'anche sferzante, rissoso o di irrisione. Certo, al Porta e al Belli fu possibile toccare corde che hanno un'alta rilevanza etica. Ma erano poeti, non commediografi. Certo, in Bersezio e in Bertolazzi è indiscutibilmente presente la corda «civile», come diceva il povero Ciampa del Berretto a sonagli. Ma chi la poteva intendere, allora? Un solo Beaumarchais servì a tutta la Francia, perché in teoria tutti i francesi, anche analfabeti, avrebbero potuto capire. Ma da noi Beaumarchais aveva bisogno della mediazione musicale; e di Bersezio e di Bertolazzi ce ne sarebbero voluti cento.
Bisognò dunque aspettare che Pirandello aggirasse l'ostacolo e si decidesse a usare quel suo spiacevole italiano che è stato sprezzantemente definito « italiese ». Sarà italiese, ma intanto il suo era il primo teatro che tutti gli italiani (si fa per dire), avrebbero potuto intendere. E avviandosi su quella strada, altri scrittori di commedie o di drammi avrebbero potuto andare anche più avanti ciò che Pirandello, nella sua gran cautela, si guardò bene dal fare: anzi, mascherò l'innovazione linguistica con un'ideologia conservatrice.

Connotati regressivi

A riconsiderarlo oggi, dall'alto della nuova « koinè » che bene o male la radio e la televisione (meno, la carta stampata) e insomma più d'un secolo d'unità hanno offerto o imposto al paese (e la si può accettare in termini di raggiunta omogeneità culturale, o deprecare come passiva omologazione), è più facile veder chiaro nel nostro Ottocento teatrale, e capire perché le posizioni più esposte ideologicamente, e più innovatrici nel linguaggio (Giacosa), scompaiano, mentre emergono quelle arroccate su posizioni più antiche. Fra l'altro, ci è più semplice vedere come, per esempio, la commedia cinematografica «all'italiana » possa assumere connotati oggi sempre più regressivi e tanto più pericolosi quanto più popolari. Ma soprattutto, possiamo superare quel pudore e quei sensi di colpa che fino a non molto tempo fa si provava davanti a una commedia dialettale. Bisognava dunque che i dialetti fossero in via d'estinzione, come sono oggi, perché ci sentissimo liberi di seguire senza rimorsi le nostre inclinazioni, e di apprezzare senza vergognarci quanto di buono l'antico artigiano teatrale ci lasciò. Sulla base della nuova parlata nazionale, forse ancora lontana dai suoi potenziali valori espressivi, soltanto oggi è possibile proporre monssù Travet ai napoletani e don Felice Sciosciammocca ai torinesi.

"la Repubblica", 8 febbraio 1980

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