6.7.14

Il tesoro del PCI (Concetto Marchesi)

Un articolo del grande latinista per l'anniversario del Pci, il cui titolo originario, Verso l'approdo, era forse esageratamente ottimista. Oltre alla scrittura, elegantemente classica, va notata l'intensa e commovente la rievocazione di un primo maggio, su un treno, nei dintorni di Messina nei primi anni del fascismo. (S.L.L.)

Verso l'approdo. 21 gennaio 1921 – 21 gennaio 1952
Il 21 gennaio 1921 a Livorno, per opera di «un'aristocrazia intellettuale» — come gli avversari si compiacquero dire — sorgeva il Partito comunista, avanguardia della classe operaia in marcia verso un nuovo mondo sociale e morale. Un nuovo mondo morale? Sì: quello che dovrà far valere le promesse e obbligazioni morali finora tutte quante tradite o fallite: un mondo dove l'interesse proprio non sia quello dei monopoli capitalistici, ma l'interesse di tutti, e la libertà propria non sia quella del signor Truman o del signor Churchill, ma la libertà di tutti: quel nuovo mondo in cui certe parole capitali della vita umana, come libertà e giustizia, acquistino finalmente un autentico significato e non servano più a mascherare l'iniquo esercizio di un funesto privilegio.
In quel giorno di gennaio, per la lucida intelligenza di alcuni uomini, in un momento di profonda crisi del regime borghese, si costituiva in Italia un partito schiettamente operaio che, senza nulla trascurare di ciò che sia giovevole alla organizzazione ed elevazione della classe lavoratrice, tendesse decisamente a risolvere il conflitto sempre più acuto tra le forze e le forme della produzione. Il distacco dei comunisti dal Partito socialista e il loro passaggio alla Internazionale comunista significava sostanzialmente la rivalutazione di quel socialismo che nella Seconda Internazionale era stato ormai soffocato da un cumulo di esitazioni fatali, di compromessi insidiosi, di aperti tradimenti: e significava altresì il taglio netto tra il massimo organismo sindacale e quel riformismo sociale che, dopo la bancarotta del 1914, continua a vivere, serbato il nome e l'inganno, e tuttora sussiste mediante quei detriti borghesi, variamente qualificabili, che non sapendo come altrimenti definirsi, si tengono appiccicato il vecchio cartello.
Quarantaduemila comunisti, allora, nel gennaio 1921. Ora sono milioni di uomini e donne: non agglomerato di politicanti maneggioni e malsicuri, né associazione congegnata a determinate e non sempre confessabili utilità, né partito che degni professarsi sostenitore o difensore della classe operaia. Difendere spesso vuoi dire essere lontani: e la difesa della classe operaia muove dall'interno della massa proletaria. Gli uomini della piccola, della media o dell'alta borghesia che passano al comunismo si inseriscono veramente nella classe operaia e contadina per affermare la propria necessità intellettuale e spirituale di partecipare direttamente alla lotta di classe. Questo vuoi dire essere comunisti: e la nostra dottrina e la nostra fede è in questa affermazione di libertà e di volontà che ci consente di metterci senza limite alcuno contro tutti gli oppressori del popolo lavoratore, contro tutti coloro che dei diseredati del mondo vogliono fare ancora lo strumento di uno scellerato privilegio.
Ricordo un primo maggio dell'anno 1923 a Messina. Giorno di lavoro, quello, perché la festa dei lavoratori era stata spostata al 21 aprile, rispolverato natalizio di Roma imperiale. Cosi si gingillano i governanti violenti e sconsigliati; si gingillano nell'abolire le voci ricorrenti dei tempi, i segni luminosi di un memorabile cammino. Giorno di lavoro, quello: ma nella fresca e limpida mattinata lungo la riviera incantata si andava nel piccolo treno a solennizzare la nostra festa: e dal fondo dell'animo nostro venivano parole certe e liete, se anche le fronti erano corrugate. I ferrovieri ascoltavano in silenzio, e le operaie ascoltavano anch'esse, sorridenti; poi una cavò da un foglio di carta sgualcita un mazzetto di garofani rossi e ne distribuì a noi mormorando: «all'occhiello no: potrebbero farvi del male quei vigliacchi!». Dei ferrovieri qualcuno, più anziano, singhiozzava, non per la pena ma per la felicità. E quando uno di noi alzò la voce: «Coraggio, compagni! anche senza cortei, anche senza bandiera, avanti!», fummo tutti felici per la certezza che ci fremeva nel cuore. Già: anche senza cortei né bandiere, avanti! E' questa, signori della santa alleanza atlantica, la ragione della infallibile avanzata proletaria, questa: che non occorrono clamori e insegne splendenti perché la marcia proceda; essa, anzi, si fa più spedita nel buio. Se anche — ammettiamo l'ipotesi assurda — in un prossimo giorno dovessero sventolare per le piazze e per le strade soltanto labari e orifiammi della Chiesa romana o del nazionalismo fascista; se anche solo le processioni dei litanianti o le turbe dei nuovi squadristi dovessero occupare le strade dei borghi e delle città, non per questo avreste motivo di rallegrarvi. Non basta togliere le insegne e la voce al nemico: bisognerebbe disarmarlo e disperderlo e convenirlo in docile servitù. Sapete che questo non avverrà mai, perché la ragione stessa della vostra vita e del vostro dominio ha bisogno di tenere insieme questa massa che dovrebbe lavorare per voi e per voi uccidere e farsi uccidere. E questa massa oggi ha un tesoro immenso di risolutezza, di fede e di forza: questa massa è l'innumerevole esercito del socialismo.
Un saggio ministro diceva a un giovane incrudelito imperatore romano: «Per quanti avversari tu possa uccidere, non ucciderai mai il tuo successore». Questo impazzito imperialismo capitalistico, per quanti strumenti di rovina possa accumulare nei cantieri della morte, non distruggerà mai il suo successore, che oggi ha un nome solo: socialismo.


l'Unità, 20 gennaio 1952.

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