8.7.14

Lo storico Franzinelli: sotto il fascismo delazioni di massa (Mario Scialoja)

Sul finire del 1999 uscì per Bollati-Boringhieri il libro di Mimmo Franzinelli, I tentacoli dell'OVRA. Agenti, collaboratori e vittime della polizia politica fascista, cui nel 2001 fece seguito Delatori, dello stesso autore per Mondadori. Tema centrale di entrambi i libri era la “delazione”, soprattutto in epoca fascista. Ne venne fuori un'immagine degli italiani assai diversa da quelle della storiografia autoassolutoria. Nonostante il discreto clamore suscitato l'indicazione della ricerca di Franzinelli non venne molto seguita, almeno dalla storiografia accademica, con una importante eccezione, tuttavia relativa a un caso particolare, il libro di Biocca su Ignazio Silone e i suoi rapporti con la polizia politica fascista, anche se non sono mancati studi significativi su archivi di stato locali (a Perugia quelle di Andrea Maori). Franzinelli ha continuato ad occuparsi di temi scabrosi della storia italiana recente: va ricordato un importante volume sulle stragi naziste impunite e occultate nei cosiddetti “armadi della vergogna”. L'intervista qui ripresa, pubblicata su “L'Espresso” nel 2000, dà conto dei risultati della ricerca sui delatori e avanza qualche ipotesi interpretativa. (S.L.L.)
Hitler e Mussolini a Roma nel 1938 visitano un Dopolavoro.
Con i due, a sinistra ,il  capo della polizia Arturo Bocchini
Quanti sono stati gli ebrei italiani denunciati alla polizia fascista dal conoscente della porta accanto, dal collega che li aveva frequentati per anni? Migliaia. Quanti gli antifascisti e i semplici scontenti o mugugnatori arrestati in base alle spiate? Centinaia di migliaia. Il fenomeno ripugnante della delazione che ha dilagato nell'Italia mussoliniana - con particolare virulenza negli anni della guerra - non è mai stato seriamente preso in considerazione dai nostri storici e ricercatori. Contrariamente a quanto è avvenuto in paesi come la Francia e la Germania, il tema della delazione non è stato dibattuto, né veramente affrontato in letteratura. Eppure si è trattato di un bubbone vistoso. Ma la nostra coscienza nazionale, cattolica e autoassolutoria, ha preferito esorcizzarlo. I nostri intellettuali, non celebri per il loro coraggio, lo hanno quasi ignorato: salvo rare eccezioni, come quella del traditore-assassino del romanzo di Alberto Moravia Il Conformista" (ripreso nell'omonimo film di Bernardo Bertolucci).
Certo, l'argomento non è piacevole. Pone problemi scomodi e dolorosi, specie in quest'epoca di conciliazione e rimozione, in cui le asprezze della storia tendono a essere banalizzate e sfumate. Ma, come ha detto Gunter Grass parlando del nazismo, «i mostri del passato possono essere lasciati alle spalle solo dopo averli conosciuti, esposti senza pudore e digeriti». In Francia esistono numerosi studi storici sul tema (La délation sous l'Occupation di Andre Halimi; La France des muochards di Sébastien Fontenelle; La dénonciation di Jean Francois Gayraud), mentre vari
romanzi di uno degli scrittori di maggior valore, Patrick Modiano, sono intrisi del problema e film come Lacombe Lucien e Au revoir les enfants di Louis Malie lo hanno portato al grande pubblico.
In Italia, a parte qualche ricerca sulle denunce contro gli ebrei, l'unico ad aver cominciato ad affrontare il delicato argomento è lo storico Mimmo Franzinelli, che ha recentemente pubblicato il corposo volume I tentacoli dell'Ovra (Bollati Boringhieri). E sta lavorando a un "manuale del delatore" (sul caso della "spia del regime", Carlo del Re), nonché a una ricognizione più vasta, sul tema "tradimento e delazione dal Risorgimento alla Repubblica".

Fondo di sorprese
Franzinelli, come mai si è dedicato allo studio della delazione?
«Mi sono reso conto che nell'analisi delle dinamiche del fascismo mancava un tassello fondamentale: quello della lotta contro le opposizioni condotta sotterraneamente dalla polizia politica del regime. Ho cominciato a occuparmi dell'argomento nell'ambito di uno studio sugli apparati statali mussoliniani e sul rapporto tra il mondo cattolico e quello militare. Mi sono così imbattuto in moltissimi casi di delazione, spiate, doppiogiochismi. E, poco a poco, ho scoperto che esiste una massa di documentazione inesplorata enorme».

Dove si trova questo materiale?
«Molto nell'Archivio centrale dello Stato a Roma: dove c'è la preziosa raccolta del Fondo Offese al Duce che raduna un'infinita varietà di rapporti di polizia e carabinieri. Ma anche negli archivi periferici provinciali. Si tratta di una mole davvero impressionante di documenti che aspetta di essere studiata. Ed è importante non solo per la valutazione dell'operato dell'Ovra e delle altre polizie contro l'opposizione politica, ma soprattutto per svelare il controllo sociale capillare messo in atto dal regime. Venivano registrati, e spesso duramente puniti, anche i semplici mormorii embrionali di disapprovazione e protesta, di cui giungeva notizia attraverso le delazioni».

L'analisi di tale documentazione può fornire un arricchimento storiografico rilevante?
«Direi proprio di sì. Da vari punti di vista. Viene fuori l'immagine di una miseria morale desolante. La figura retorica, autopromossa, del "buon italiano" va a pezzi. Emerge la disponibilità di tanti a tradire il vicino, il conoscente, addirittura il parente: per rancore, per gelosia, per carrierismo. È il caso dei vicini che denunciano le famiglie di ebrei per prendergli la casa. Del professore che denuncia il collega ed è lesto ad andare a coprire il suo posto. E anche degli antifascisti che passano nascostamente dall'altra parte per praticare la delazione».


Tu critichi, io ti denuncio
Che ampiezza ha avuto il fenomeno in Italia?
«Centinaia di migliaia di delatori della porta accanto, cioè quelli occasionali, non pagati. Oltre ai tanti infiltrati e ai delatori sistematici, stipendiati regolarmente dalla polizia. Gli archivi contengono montagne di lettere, biglietti, deposizioni verbalizzate che documentano tale deprimente realtà. Per esempio, nel Fondo Offese al Duce vi sono decine di migliaia di denunce anonime contro persone che all'osteria avevano imprecato o fatto una battuta contro Mussolini: la vittima della soffiata molto spesso veniva incarcerata o spedita al confino. In alcuni casi su decisione di Mussolini stesso (i documenti portano stampigliato "visto dal Duce") che ci teneva a esaminare di persona buona parte di questo materiale».

Si sa quanti sono stati i delatori al soldo delle polizie fasciste?
«Venne tentato di censirli durante l'epurazione: si partì da più di diecimila nomi sulla base degli elenchi dell'Ovra, della Divisione di Polizia politica, della Milizia volontaria di sicurezza, delle questure... Ma nel '46, l'Alto commissariato per i crimini del fascismo compilò una lista "ufficiale" di appena 622 nomi. Una beffa che non è mai stata chiarita. Anche perché gli elenchi originali vennero fatti sparire».

Da chi?
«Una bella domanda. A cui va ancora trovata risposta. Ritengo che tra il '45 e il '46 vi furono delle trattative tra dirigenti governativi antifascisti, come Palmiro Togliatti e Pietro Nenni, ed ex capi di polizia, come Guido Leto, per chiudere la faccenda. E il governo De Gasperi bloccò tutto. Lasciar affiorare il vasto fenomeno spie-delatori voleva dire avallare un'immagine da "guerra civile" di ciò che era accaduto nel paese: e questo era in contraddizione con la retorica resistenziale. Spesso anche i partigiani vollero nascondere dei casi di tradimento e delazione da parte di gente del loro ambiente».

Credere, obbedire, confidare
Quando e come venne messa a punto la rete di delatori e il controllo poliziesco capillare del fascismo?
«Mussolini impiegò 4 o 5 anni per perfezionare la struttura di controllo. Il salto decisivo avvenne nel '27, dopo la nomina di Arturo Bocchini a capo della polizia. A quel punto la delazione fu incentivata al massimo e divenne una pratica burocratica d'ufficio. Tra l'altro venne emessa una circolare che stabiliva che tutti i portieri, pena il licenziamento, dovevano trasformarsi in confidenti della polizia. Durante un primo periodo la rete di spie e delatori fu usata soprattutto per colpire le opposizioni politiche. Ci furono casi clamorosi. Carlo Del Re, per salvarsi dalla bancarotta fraudolenta, tradì e fece finire in galera il nucleo centrale di Giustizia e Libertà. Il doppiogiochista Alfredo Canali, anche lui di Giustizia e Libertà, divenne confidente e denunciò molti compagni: morì deportato in Germania e per molto tempo non venne ammesso il suo ruolo di traditore. I filonazisti della banda Koch, durante il periodo della resistenza romana, decimarono il Partito d'Azione trasformando in delatori alcuni militanti: attraverso minacce, torture feroci, promesse».

Ma vittime della macchina delatorio-poliziesca non furono solo gli oppositori al regime.
«Una volta scompaginate le opposizioni politiche, l'obiettivo della rete divenne il monitoraggio del polso dell'opinione pubblica, il controllo delle mormorazioni popolari. Compito al quale Mussolini teneva molto. Venne deciso di prendere in considerazione anche le denunce anonime. Non fu risparmiato neanche l'ambiente ecclesiastico. Vi sono molte lettere di preti e parroci che denunciano dei loro superiori: per invidia, per vendetta personale... Addirittura contro il cardinale Ildefonso Schuster e padre Agostino Gemelli, che erano noti filofascisti, vennero scritti dall'interno della Chiesa numerosi messaggi delatori: per qualche "critica a Mussolini", o quant'altro».

E gli ebrei?
«Con le leggi razziali del '38 le delazioni contro gli ebrei divennero massicce e si moltiplicarono negli anni della guerra: e a quel punto denunciare un ebreo voleva dire mandarlo a morte. È bene ricordarlo. D'altra parte, va detto che il duce, pur usando i delatori su ampia scala, li disprezzava: alcuni, come Del Re, chiesero di essere ricevuti, ma Mussolini diede ordine di tenerli lontani».

Secondo lei, perché il fenomeno della delazione è stato trascurato dai nostri studiosi e rimosso dalla coscienza storica?

«Si tratta di un argomento scomodo per tutti. Per la storiografia antifascista, perché fa emergere un'opposizione poco coesa e infiltrata: per carità di patria si è evitato di guardare a una brutta pagina. E scomodo, ovviamente, pure per la storiografìa tradizionale, retorico-patriottarda: viste le dimensioni del fenomeno, avrebbe dovuto prendere atto che siamo stati anche un popolo di delatori. Inoltre le peggiori caratteristiche di una certa morale cattolica nostrana hanno aiutato a insabbiare tutto sotto il velo dell'ipocrisia, della doppiezza, del pentimento indulgente. Una colpa grave: perché, per poter essere superata, la storia deve essere conosciuta».  

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