Il sito letterario
“Asterischi.iT” presenta una rubrica di news che contiene, oltre alle
notizie di oggi, anche “notizie di ieri”, cronache di precisi
momenti di storia letteraria. Ho trovato assai bella questa
rievocazione dell'impatto che ebbe nell'America degli anni del
maccartismo l'Urlo di
Ginsberg. Ne suggerisco la lettura. (S.L.L.)
Allen Ginsberg |
Ebbene
sì, l’Urlo è stato
soffocato, ieri 25 Marzo 1957, con un processo per oscenità nei
confronti dell’editore Lawrence Ferlinghetti. Partiamo dal 7
ottobre 1955, un anno e mezzo fa, quando Allen Ginsberg legge per la
prima volta in pubblico il suo poema Urlo.
Ci troviamo alla Six Gallery di San Francisco, Frisco per gli addetti
ai lavori, una piccola galleria d’arte all’interno di una vecchia
officina meccanica tra la Union e la Fillmore Street. Ginsberg lo
legge, gli ascoltatori lo osannano. Urlo
viene pubblicato da Lawrence Ferlinghetti un anno dopo, nell’autunno
1956. La raccolta di poesie di Ginsberg diventa il cult della Beat
Generation.
In
questi sei mesi abbiamo sentito molte storie su di lui. Allen
Ginsberg è il poeta visionario, rimbaudiano perché la “nuova
visione” che muove la sua poetica è un’eredità ricevuta da
Arthur Rimbaud. È l’ascoltatore incantato che sostiene di aver
tratto ispirazione da William Blake, in un misero appartamento di
Harlem nel 1948. È il fumatore di peyote che si sbarazza dei cliché
e sperimenta un linguaggio fatto di esperienze, associazioni d’idee,
allucinazione, interferenze emotive date da chi gravita nella sua
immediata orbita. E Urlo
diventa così la pietra dello scandalo.
Col
suo ritmo isterico e apparentemente a briglie sciolte, Ginsberg
costruisce con estrema lucidità quattro parti distinte. La prima è
un collage di immagini mischiate che ruotano intorno a esperienze
reali, descrizioni di persone conosciute, artisti, poeti, pazienti
psichiatrici. «Ho visto le migliori menti della mia generazione
distrutte dalla follia, affamate isteriche nude, trascinarsi nei
quartieri negri all’alba in cerca di un sollievo astioso […]».
La seconda parla dell’America, immensa e sporca, un gigante
imbruttito che Ginsberg chiama Moloch e «il cui sangue è denaro».
«Quale sfinge di cemento e alluminio gli ha spaccato il cranio e ha
mangiato i loro cervelli e la loro immaginazione? Moloch! Solitudine!
Sporco! Bruttezza!». La terza è una sorta di lettera a Carl
Solomon, poeta dadaista che decide volontariamente di farsi internare
nell’ospedale psichiatrico di Rockland. È un canto ripetitivo,
impregnato di speranze ma paure condivise. «Carl Solomon […] sono
con te a Rockland dove siamo grandi scrittori sulla stessa orribile
macchina da scrivere. […] Sono con te a Rockland dove abbracciamo e
baciamo gli Stati Uniti sotto le lenzuola gli Stati Uniti che
tossisce tutta la notte e non ci lascia dormire. […]» La quarta è
la nota finale in forma mistica, dove il mantra Holy!
sembra lasciare aperto uno spiraglio all’ottimismo e all’arte.
Eppure «il migliore poema del giovane gruppo», come dichiarato dal poeta Richard Eberhart sul “New York Times”, è appena stato censurato, con il risultato di 520 copie ritirate e un processo nei confronti dell’editore. E se Moloch non ha capito l’importanza di questo urlo, sta a noi leggere le parole che la giovane Beat Generation ha trasformato in poesia cruda e visionaria. «visioni! presagi! allucinazioni! miracoli! estasi! portati via dal fiume americano! Sogni! adorazioni! illuminazioni! religioni! l’intero bastimento di stronzate emotive!».
Eppure «il migliore poema del giovane gruppo», come dichiarato dal poeta Richard Eberhart sul “New York Times”, è appena stato censurato, con il risultato di 520 copie ritirate e un processo nei confronti dell’editore. E se Moloch non ha capito l’importanza di questo urlo, sta a noi leggere le parole che la giovane Beat Generation ha trasformato in poesia cruda e visionaria. «visioni! presagi! allucinazioni! miracoli! estasi! portati via dal fiume americano! Sogni! adorazioni! illuminazioni! religioni! l’intero bastimento di stronzate emotive!».
1 commento:
Grazie per la bella "recensione".
Debora Borgognoni
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