BARCELLONA
Filologo e storico della
letteratura di fama internazionale, Francisco Rico — Paco per gli
amici — nato a Barcellona ma di famiglia castigliana, è oggi il
più illustre campione della grande tradizione culturale spagnola.
Basterebbero a farne fede le sue imprescindibili edizioni di
Lazarillo de Tormes (2001) e del Don Quijote de la Mancha
(2008). Invitato nelle università e nelle accademie di mezzo mondo,
passando con uguale disinvoltura dallo spagnolo all’italiano, al
francese, all’inglese, Rico, membro della Real Academia Española,
è indubbiamente un erudito sui generis, che unisce all’autorevolezza
di un ambasciatore del tempo di Carlo V la elegante leggerezza di un
dandy. Ma che l’Italia sia per lui — studioso di Petrarca e di
Boccaccio — anche un luogo dell’anima, lo conferma oggi l’ultimo
titolo della lunga lista dei libri tradotti nella nostra lingua, I
venerdì del Petrarca (Adelphi), seguito nello stesso volume da
un Profilo biografico di Petrarca in collaborazione con Luca
Marcozzi. Un affascinante ritratto di un Petrarca segreto che è al
tempo stesso una rigorosa lezione di metodo filologico e una presa di
distanza nei confronti di una concezione troppo restrittiva della sua
disciplina.
Professor Rico, lei
sostiene che anche la filologia è una narrazione, creazione
letteraria la cui posta in gioco non è “di ideare personaggi, ma
di comprendere delle persone”. Non è una visione troppo eterodossa
della sua disciplina?
«Certo che sì. Per me
la filologia non è scienza ma, per dirla all’antica, è umanità,
ars humanitatis, e merita di essere scritta con rigore ma con
la stessa volontà di stile di qualunque altro genere letterario».
Lei mostra bene come
Petrarca abbia perseguito fin da giovane il progetto di costruire,
tassello dopo tassello, la propria autobiografia, la prima della
letteratura occidentale moderna. Cosa ha potuto indurlo a un gesto
così innovativo?
«A cominciare (quando
aveva già 50 anni) dalla scelta del suo nome definitivo, che prima
fluttuava tra “Pentraco”, “Petrachus” e altre forme, Petrarca
costruiva la sua biografia perché viveva più pienamente, più
autenticamente, nella scrittura che nella realtà. Teneva molto
all’immagine, ancor di più a quella che avrebbe mostrato a se
stesso: «Intero e pieno — diceva — senza lacerarsi in mille
sentimenti contrastanti».
Ci
può spiegare la strategia complessa di indizi e di omissioni, di
detto e non detto, di cui Petrarca si serve, nel corso della sua
intera opera, per mettere in scena il suo personaggio pubblico?
«Lui non poteva negare
direttamente cose che aveva affermato in passato, perché i suoi
testi erano ormai nelle mani di molti. Ciò che faceva era dare nuove
interpretazioni dei fatti. Così, dell’incontro con Laura, della
laurea napoletana o del suo atteggiamento (prima favorevole e poi
critico) verso Cola di Rienzo offre distinte versioni, che non
coincidono tra loro, per far sì che l’ultima cancellasse le
precedenti».
Lei scrive che
nell’abbracciare la totalità della propria “peregrinatio tra
vita e letteratura”, Petrarca mirava a un insegnamento morale di
carattere universale, ma che questa narrazione esemplare celava una
rivelazione autobiografica più complessa.
«Sì, perché se la
biografia che voleva vivere e scrivere rispondeva a un’immagine
ideale, quell’ideale poteva soltanto essere universale, morale e
religioso ».
Petrarca, tuttavia,
voleva anche lasciare una traccia occulta della sua vicenda privata e
lei ha individuato nei molti venerdì che si rincorrono nei suoi
scritti — ricordiamo quello dell’incontro fatidico con Laura il 6
aprile 1327, e quello della morte di lei, il 6 aprile 1348 — una
data feticcio.
«La propria vita gli si
presentava come un libro segmentato in capitoli e sezioni che
segnavano tappe e cambiamenti nella sua immagine pubblica: la grande
“mutatio” dei quarant’anni, prima e dopo Laura, la rinuncia
alla lussuria nell’occasione del Giubileo del 1350, eccetera. Ma
certi momenti ed episodi venivano segnati anche come con un post-it
colorato: quelli che corrispondono a un venerdì sono tanti e così
rilevanti, che non c’è dubbio che quel giorno fosse significativo
nella sua vita intima ».
Come giudicare la
scelta, a dir poco audace, di Petrarca di annotare i suoi fatti
personali in margine a un preziosissimo codice di Virgilio oggi
custodito alla Biblioteca Ambrosiana?
«Tutti scrivevano nei
libri. Ma per dare la sua ultima versione della storia di Laura,
Petrarca sceglie il codice più prezioso della sua biblioteca,
sapendo che il volume sarebbe passato in altre mani e quella versione
avrebbe finito col diventare pubblica».
Dobbiamo pensare a una
sola Laura o a tante Laure in una? E dobbiamo iscriverla sotto il
segno dell’amor sacro o dell’amor profano, della letteratura o
della vita?
«Una e tante. Tendo a
pensare che una “Laura” esistette realmente, ma è anche una
sorta di compendio di tutte le sue esperienze amorose (ed erotiche),
privilegiando le più nobili per tradizione letteraria e decoro o
dignità spirituale».
Tutta la vita di
Petrarca è attraversata tanto dalla necessità di trovarsi dei
protettori e puntare a un ruolo di consigliere del principe, quanto
dal desiderio di raccoglimento e di ozio studioso. Due esigenze per
lui irrinunciabili?
«Irrinunciabili perché
imprescindibili. Una vita come la sua si poteva soltanto ottenere con
benefici ecclesiastici e protezione dei potenti».
Perché quello di
Petrarca le appare come “il carattere tipico del nevrotico”?
«Perché ossessivo,
ansioso, irritabile, contraddittorio, in conflitto con se stesso».
In che misura passioni
mondane come l’interesse e l’amore si conciliano in Petrarca con
la sua condizione di chierico e con la sua battaglia contro il vizio?
«Non era più peccatore
di chiunque altro dell’epoca. Il suo cristianesimo, con risvolti
superstiziosi, era profondo e orientava tutti i suoi scritti».
Cosa ha fatto di
Petrarca fino al XIX secolo il poeta per antonomasia dell’Europa
moderna?
«Fino ad allora, la
lirica gli deve tutto (e in Italia il poeta nazionale è lui, non
Dante); il moralista restò nel dimenticatoio a metà del
Cinquecento; ma la sua lezione per quanto concerne lo studio dei
classici fu decisiva nella genesi dell’umanesimo maturo ».
la Repubblica 15 dicembre
2016
Nessun commento:
Posta un commento