16.12.16

Francisco Rico: “Così Petrarca costruì il mito di se stesso”. Intervista di Benedetta Craveri

BARCELLONA
Filologo e storico della letteratura di fama internazionale, Francisco Rico — Paco per gli amici — nato a Barcellona ma di famiglia castigliana, è oggi il più illustre campione della grande tradizione culturale spagnola. Basterebbero a farne fede le sue imprescindibili edizioni di Lazarillo de Tormes (2001) e del Don Quijote de la Mancha (2008). Invitato nelle università e nelle accademie di mezzo mondo, passando con uguale disinvoltura dallo spagnolo all’italiano, al francese, all’inglese, Rico, membro della Real Academia Española, è indubbiamente un erudito sui generis, che unisce all’autorevolezza di un ambasciatore del tempo di Carlo V la elegante leggerezza di un dandy. Ma che l’Italia sia per lui — studioso di Petrarca e di Boccaccio — anche un luogo dell’anima, lo conferma oggi l’ultimo titolo della lunga lista dei libri tradotti nella nostra lingua, I venerdì del Petrarca (Adelphi), seguito nello stesso volume da un Profilo biografico di Petrarca in collaborazione con Luca Marcozzi. Un affascinante ritratto di un Petrarca segreto che è al tempo stesso una rigorosa lezione di metodo filologico e una presa di distanza nei confronti di una concezione troppo restrittiva della sua disciplina.

Professor Rico, lei sostiene che anche la filologia è una narrazione, creazione letteraria la cui posta in gioco non è “di ideare personaggi, ma di comprendere delle persone”. Non è una visione troppo eterodossa della sua disciplina?
«Certo che sì. Per me la filologia non è scienza ma, per dirla all’antica, è umanità, ars humanitatis, e merita di essere scritta con rigore ma con la stessa volontà di stile di qualunque altro genere letterario».

Lei mostra bene come Petrarca abbia perseguito fin da giovane il progetto di costruire, tassello dopo tassello, la propria autobiografia, la prima della letteratura occidentale moderna. Cosa ha potuto indurlo a un gesto così innovativo?
«A cominciare (quando aveva già 50 anni) dalla scelta del suo nome definitivo, che prima fluttuava tra “Pentraco”, “Petrachus” e altre forme, Petrarca costruiva la sua biografia perché viveva più pienamente, più autenticamente, nella scrittura che nella realtà. Teneva molto all’immagine, ancor di più a quella che avrebbe mostrato a se stesso: «Intero e pieno — diceva — senza lacerarsi in mille sentimenti contrastanti».

Ci può spiegare la strategia complessa di indizi e di omissioni, di detto e non detto, di cui Petrarca si serve, nel corso della sua intera opera, per mettere in scena il suo personaggio pubblico?
«Lui non poteva negare direttamente cose che aveva affermato in passato, perché i suoi testi erano ormai nelle mani di molti. Ciò che faceva era dare nuove interpretazioni dei fatti. Così, dell’incontro con Laura, della laurea napoletana o del suo atteggiamento (prima favorevole e poi critico) verso Cola di Rienzo offre distinte versioni, che non coincidono tra loro, per far sì che l’ultima cancellasse le precedenti».

Lei scrive che nell’abbracciare la totalità della propria “peregrinatio tra vita e letteratura”, Petrarca mirava a un insegnamento morale di carattere universale, ma che questa narrazione esemplare celava una rivelazione autobiografica più complessa.
«Sì, perché se la biografia che voleva vivere e scrivere rispondeva a un’immagine ideale, quell’ideale poteva soltanto essere universale, morale e religioso ».

Petrarca, tuttavia, voleva anche lasciare una traccia occulta della sua vicenda privata e lei ha individuato nei molti venerdì che si rincorrono nei suoi scritti — ricordiamo quello dell’incontro fatidico con Laura il 6 aprile 1327, e quello della morte di lei, il 6 aprile 1348 — una data feticcio.
«La propria vita gli si presentava come un libro segmentato in capitoli e sezioni che segnavano tappe e cambiamenti nella sua immagine pubblica: la grande “mutatio” dei quarant’anni, prima e dopo Laura, la rinuncia alla lussuria nell’occasione del Giubileo del 1350, eccetera. Ma certi momenti ed episodi venivano segnati anche come con un post-it colorato: quelli che corrispondono a un venerdì sono tanti e così rilevanti, che non c’è dubbio che quel giorno fosse significativo nella sua vita intima ».

Come giudicare la scelta, a dir poco audace, di Petrarca di annotare i suoi fatti personali in margine a un preziosissimo codice di Virgilio oggi custodito alla Biblioteca Ambrosiana?
«Tutti scrivevano nei libri. Ma per dare la sua ultima versione della storia di Laura, Petrarca sceglie il codice più prezioso della sua biblioteca, sapendo che il volume sarebbe passato in altre mani e quella versione avrebbe finito col diventare pubblica».

Dobbiamo pensare a una sola Laura o a tante Laure in una? E dobbiamo iscriverla sotto il segno dell’amor sacro o dell’amor profano, della letteratura o della vita?
«Una e tante. Tendo a pensare che una “Laura” esistette realmente, ma è anche una sorta di compendio di tutte le sue esperienze amorose (ed erotiche), privilegiando le più nobili per tradizione letteraria e decoro o dignità spirituale».

Tutta la vita di Petrarca è attraversata tanto dalla necessità di trovarsi dei protettori e puntare a un ruolo di consigliere del principe, quanto dal desiderio di raccoglimento e di ozio studioso. Due esigenze per lui irrinunciabili?
«Irrinunciabili perché imprescindibili. Una vita come la sua si poteva soltanto ottenere con benefici ecclesiastici e protezione dei potenti».

Perché quello di Petrarca le appare come “il carattere tipico del nevrotico”?
«Perché ossessivo, ansioso, irritabile, contraddittorio, in conflitto con se stesso».

In che misura passioni mondane come l’interesse e l’amore si conciliano in Petrarca con la sua condizione di chierico e con la sua battaglia contro il vizio?
«Non era più peccatore di chiunque altro dell’epoca. Il suo cristianesimo, con risvolti superstiziosi, era profondo e orientava tutti i suoi scritti».

Cosa ha fatto di Petrarca fino al XIX secolo il poeta per antonomasia dell’Europa moderna?
«Fino ad allora, la lirica gli deve tutto (e in Italia il poeta nazionale è lui, non Dante); il moralista restò nel dimenticatoio a metà del Cinquecento; ma la sua lezione per quanto concerne lo studio dei classici fu decisiva nella genesi dell’umanesimo maturo ».

la Repubblica 15 dicembre 2016

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