L'articolo che segue è
stato pubblicato senza firma come “provocazione” in un box a
piedi di una doppia pagina dedicata ai monopoli digitali. L'autore
dovrebbe essere Enrico Pedemonte, curatore del servizio. (S.L.L.)
Peter Thiel e Donald Trumpo |
Quella sui monopoli
digitali non è solo una battaglia economica, ma soprattutto una
battaglia culturale, e il crogiuolo dove questa cultura viene
forgiata è la Silicon Valley, dove ideologie e tecnologie vengono
prodotte con analogo fervore. Se Internet è il nuovo mondo, niente è
come prima e persino le tradizionali regole dell’economia vengono
messe in discussione.
Peter Thiel è un
personaggio chiave per capire la scommessa in gioco. Il grande
pubblico lo ha visto sul palco della Convention repubblicana a
braccetto con Donald Trump. Ma gli addetti ai lavori lo conoscevano
da anni come il miliardario fondatore di Paypal (la società che
facilita i pagamenti sul web), investitore di Facebook, guru della
Valley e ideologo libertarian autore (nel 2015) di Zero to
One, pubblicato in Italia da Feltrinelli. Thiel è un difensore
dei monopoli e un denigratore della concorrenza, sostiene che «la
competizione è per i perdenti» e che il capitalismo odia la
competizione perché questa impone costi altissimi e diminuisce il
valore delle aziende. Al contrario, i veri imprenditori costruiscono
qualcosa che prima non esisteva e creano un monopolio: «I monopoli
guidano il progresso».
Ogni ideologia è figlia
del suo tempo, e quella di Thiel è figlia dell’attuale ciclo
tecnologico dominato dalle reti che creano le condizioni perché si
sviluppino “monopoli naturali”.
Nel suo ultimo libro (The
People’s Platform, Metropolitan Books) Astra Taylor spiega il
successo (e il monopolio) dei colossi digitali come il trionfo delle
piattaforme digitali, strumenti adatti a mettere in comunicazione
gruppi di persone per scambiare beni, servizi e informazioni. Esempi?
Ebay collega venditori e compratori, Uber fa incontrare persone in
cerca di taxi e taxisti, Facebook facilita le reti degli amici. Una
piattaforma crea un ecosistema che è anche un monopolio naturale
perché il valore di una rete aumenta a dismisura con il crescere
delle persone collegate. Ovvio che il migliore diventi monopolista.
La mancanza di struttura rende Internet un mondo darwiniano dove
prevale il più forte e il più debole soccombe.
Taylor si spinge più in
là. Sostiene che l’Internet aperto che molti continuano a sognare
è ormai un mito del passato: l’Internet di oggi è ormai dominato
dalle piattaforme. Bastano pochi dati a dimostrarlo: Facebook è
ormai responsabile di oltre il 25% di tutte le visite sul web e
quando la piattaforma di Google subì un crash, il 16 agosto 2013, il
40% del traffico di Internet tracollò. Il traffico è concentrato in
un numero limitato di piattaforme che controllano i dati degli
utenti. Un tempo si diceva che erano i contenuti a dominare il web:
content is king. Era un’illusione. I contenuti hanno perso
valore essendo quasi tutti gratuiti, mentre i re della rete sono
coloro che controllano le connessioni.
Ma siamo solo all’inizio
del percorso. I “monopoli naturali” di Internet puntano alla
personalizzazione di servizi sempre più raffinati che dilagheranno
nelle case, nelle automobili, nei vestiti che indossiamo, anche
grazie a nuove tecniche di realtà virtuale e chissà quali altre
diavolerie. Ma anche il termine “monopoli naturali” è frutto
dell’ideologia alimentata dalla Silicon Valley. Se sono “naturali”,
che cosa ci possiamo fare? Ma forse qualcosa si può fare. All’inizio
del Novecento ci vollero decenni per porre un argine ai monopoli
nascenti. E oggi?
Pagina 99, 9 settembre 2016
Nessun commento:
Posta un commento