Ho conosciuto Fortini
intorno al ’58-'59, quando accettò di venire a Piacenza a parlare
ad un circolo culturale che dirigevo con alcuni amici. Dire che cosa
ho imparato da Fortini, in che misura la sua opera mi abbia formato e
mi abbia costantemente accompagnato, nonostante i contrasti, sarebbe
troppo lungo e anche difficile. Tutti coloro che scrivono pensano,
consciamente o inconsciamente, a un lettore-giudice. Per quel che mi
riguarda, in questa figura ideale, combinazione di più persone ben
reali, Fortini è sempre stato presente, e spesso in posizione
dominante.
Quando iniziarono i
«Quaderni' piacentini». Fortini fu il primo intellettuale di
prestigio a dare la sua collaborazione a questa rivistina fondata da
giovani affatto sconosciuti, aprendo in un certo senso la strada ad
altri, da Cases a Solmi, eccetera. Fu ancora Fortini a fornirci il
primo indirizzario di persone a cui mandare la rivista, possibili
collaboratori e abbonati.
Tra i testi dell'Ospite
ingrato, c’è la Lettera ad amici di Piacenza, a mio parere
una delle migliori prove del Fortini politico. Ricordo quando la
ricevemmo, nel ’61. Era una lettera circolare ciclostilata, senza
titolo, che Fortini aveva inviato a molti amici e compagni di
tutt’Italia. Includendola nel 1966 nel libro, Fortini volle darle
quel titolo, quasi a riconoscere che tra i molti destinatari forse
eravamo stati quelli che meglio l’avevano compresa e messa a
frutto. Amo considerare quelle pagine una sorta di ideale
introduzione alla rivista, che cominciò a uscire un anno dopo, nel
’62.
L’ultima volta che ho
visto Fortini è stato nel luglio scorso nella sua casa di Milano.
Era spaventosamente smagrito e ben consapevole del suo stato. Eppure
il lungo calvario della malattia, che ormai gli concedeva requie
sempre più rara e breve, e la prossimità della morte non ne avevano
mutato per nulla l'animo, la passione intellettuale e politica. A
parte il tono della voce, più debole, era il Fortini di
sempre,acuto, curioso, vivace, polemico.
Le sue osservazioni
erano, al solito, molto acute, ma a sorprendermi era soprattutto la
sua straordinaria volontà di essere nel presente e di proiettarsi
nel futuro. Tanto che non potei fare a meno di confessargli che a me
succedeva il fenomeno esattamente opposto. Gli dissi anche che la
cosa che più mi premeva era di decidermi a scrivere un saggio sulle
Lettere dei condannati a morte della Resistenza... Fu un
inciso nella conversazione, che prosegui su altri argomenti. Però,
al momento del congedo, mi . disse con un tono affettuosamente
imperativo: «Scrivilo, quel saggio sulle lettere della
Resistenza...».
Avevo portato con me
l'ultima sua raccolta di versi, Composita solvantur, altissimo
testamento poetico e morale, per chiedergli una dedica. Prima però
volle fare una correzione al testo, e precisamente all’ultimo verso
della settima Canzonetta del Golfo, che recita: «Cara meta che non
ho». È un errore, disse Fortini, un lapsus. E sostituì «ho» con
«so». Non la conosciamo, ma la meta c’è.
L'Unità, 24 novembre
1994
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