Altri dirà della sua
poesia e rifletterà sul suo pensiero, io non so farlo. So solo
registrare l'aprirsi di un vuoto: oppure la conclusione di un’epoca?
L’ho conosciuto,
Fortini, nelle nebbie e nella desolazione di un lontanissimo inverno
1941: tutti e due chiamati alle armi dal governo fascista, a un corso
per sergenti, (a Civita Castellana) dove non si faceva nulla, nemmeno
ci insegnavano a sparare, salvo che arrampicarsi in fila sul Soratte,
accampati in baracche gelide, con una fame da lupo sempre, e il
terrore (ancora) che Hitler potesse vincere la guerra. Non fu
difficile conoscerci e parlare: bastava un nulla, allora, per
accorgersi - da una frase, da un gesto, da un commento, da uno scatto
- che tutti e due eravamo disperatamente contro il fascismo e per
quanto già ne eravamo capaci praticavamo, tentavamo la difficile via
della cospirazione. In seguito i fatti terribili ci divisero:
ciascuno, per la sua parte, nella grande avventura della Resistenza
(come se ne parla in modo scemo oggi...).
Poi ci ritrovammo nelle
enormi speranze del secondo dopoguerra (ma quanti fatti - crisi,
sconfitte/riscosse - ci sono in questo «poi»...). E per me - al di
là dell'amore per la sua poesia - Fortini è stato un grande
italiano europeo, mente e passione immerse ed aperte agli
straordinari e terribili conflitti del Novecento. Fortini non ha mai
detto o fatto nulla per lenire il conflitto, per addolcirlo, fosse
pure per allentarlo con una pausa, o con la sosta o l'appagamento di
un compromesso, fosse pure ragionevole, sostenibile. Non possiamo
nasconderlo a nessuno, per quanto sgradito e persino strano possa
essere in questi tempi: il suo tema era la grande nuova aporia che
era stata aperta nella società mondiale dall'avanzata onnivora del
capitalismo. Ed ecco quindi in lui, cosi dominante sempre lo
scrutare, la ricerca di un germe, un embrione un palpito di una
soggettività antagonistica: per leggerne i segni, dirli, e anche
denunciare le offese, le capitolazioni, i tradimenti. Era uomo d’ira.
Il suo impianto culturale
era complesso e non perdonava. Aveva quasi un terrore del
compromesso, del travisamento, o anche solo dell'attenuazione quieta.
Ed è stato sempre, per tanti di noi, questa intelligenza ferma e
spietata, eppure così ansiosa, interrogante dei transiti e dei nessi
culturali, e anche così colta nel tessuto forte e asciutto della sua
poesia. Stiamo parlando di un grande poeta civile? Credo di sì. E la
sua opera ha conosciuto anche la poesia d'azione. Ma come era
complicata, articolata, e anche perplessa la sua tensione culturale,
appunto: così europea. Ricordo un episodio strano. Ero in un teatro
di Milano per un dibattito: doveva essere attorno al '68 o
immediatamente dopo il '68. A un certo punto, mentre il dibattito era
appena cominciato irruppe dalla sala verso il palcoscenico «Cavallo
pazzo», quello che ancora oggi invade gli stadi. A quei tempi, il
«servizio d'ordine» era rigoroso e duro. Dalla sala emerse allora
Fortini a difenderlo, a protestare. Forse sbagliava, non so. Ma in
quel gesto io ritrovai per un attimo il suo tenace rifiuto, la sua
collera contro la gerarchia, contro l'esteriorità di un ordine che
poteva soffocare la ricerca: insomma la sua perenne inquietudine di
libertà. Oggi i tempi attorno sono diversi dalla sua tensione verso
l’esistente. La critica al capitalismo sembra divenuta un inutile
peccato, o un'anticaglia. Eppure questo grande poeta che se ne va
lascia scritta una testimonianza che dura. Composita Solvantur
ha intitolato il suo ultimo, bellissimo, libro di poesie: si
sciolgano le cose che furono composte. Sono sillabe scritte con la
severa cognizione della morte. Con grande timidezza e non sopita
speranza, vorremmo dire: perché, nel turbine, le cose possano
procedere ancora verso una nuova aggregazione.
L'Unità, 29 novembre
1994
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