14.12.16

Franco Fortini. Una spietata intelligenza (Pietro Ingrao)

Altri dirà della sua poesia e rifletterà sul suo pensiero, io non so farlo. So solo registrare l'aprirsi di un vuoto: oppure la conclusione di un’epoca?
L’ho conosciuto, Fortini, nelle nebbie e nella desolazione di un lontanissimo inverno 1941: tutti e due chiamati alle armi dal governo fascista, a un corso per sergenti, (a Civita Castellana) dove non si faceva nulla, nemmeno ci insegnavano a sparare, salvo che arrampicarsi in fila sul Soratte, accampati in baracche gelide, con una fame da lupo sempre, e il terrore (ancora) che Hitler potesse vincere la guerra. Non fu difficile conoscerci e parlare: bastava un nulla, allora, per accorgersi - da una frase, da un gesto, da un commento, da uno scatto - che tutti e due eravamo disperatamente contro il fascismo e per quanto già ne eravamo capaci praticavamo, tentavamo la difficile via della cospirazione. In seguito i fatti terribili ci divisero: ciascuno, per la sua parte, nella grande avventura della Resistenza (come se ne parla in modo scemo oggi...).
Poi ci ritrovammo nelle enormi speranze del secondo dopoguerra (ma quanti fatti - crisi, sconfitte/riscosse - ci sono in questo «poi»...). E per me - al di là dell'amore per la sua poesia - Fortini è stato un grande italiano europeo, mente e passione immerse ed aperte agli straordinari e terribili conflitti del Novecento. Fortini non ha mai detto o fatto nulla per lenire il conflitto, per addolcirlo, fosse pure per allentarlo con una pausa, o con la sosta o l'appagamento di un compromesso, fosse pure ragionevole, sostenibile. Non possiamo nasconderlo a nessuno, per quanto sgradito e persino strano possa essere in questi tempi: il suo tema era la grande nuova aporia che era stata aperta nella società mondiale dall'avanzata onnivora del capitalismo. Ed ecco quindi in lui, cosi dominante sempre lo scrutare, la ricerca di un germe, un embrione un palpito di una soggettività antagonistica: per leggerne i segni, dirli, e anche denunciare le offese, le capitolazioni, i tradimenti. Era uomo d’ira.
Il suo impianto culturale era complesso e non perdonava. Aveva quasi un terrore del compromesso, del travisamento, o anche solo dell'attenuazione quieta. Ed è stato sempre, per tanti di noi, questa intelligenza ferma e spietata, eppure così ansiosa, interrogante dei transiti e dei nessi culturali, e anche così colta nel tessuto forte e asciutto della sua poesia. Stiamo parlando di un grande poeta civile? Credo di sì. E la sua opera ha conosciuto anche la poesia d'azione. Ma come era complicata, articolata, e anche perplessa la sua tensione culturale, appunto: così europea. Ricordo un episodio strano. Ero in un teatro di Milano per un dibattito: doveva essere attorno al '68 o immediatamente dopo il '68. A un certo punto, mentre il dibattito era appena cominciato irruppe dalla sala verso il palcoscenico «Cavallo pazzo», quello che ancora oggi invade gli stadi. A quei tempi, il «servizio d'ordine» era rigoroso e duro. Dalla sala emerse allora Fortini a difenderlo, a protestare. Forse sbagliava, non so. Ma in quel gesto io ritrovai per un attimo il suo tenace rifiuto, la sua collera contro la gerarchia, contro l'esteriorità di un ordine che poteva soffocare la ricerca: insomma la sua perenne inquietudine di libertà. Oggi i tempi attorno sono diversi dalla sua tensione verso l’esistente. La critica al capitalismo sembra divenuta un inutile peccato, o un'anticaglia. Eppure questo grande poeta che se ne va lascia scritta una testimonianza che dura. Composita Solvantur ha intitolato il suo ultimo, bellissimo, libro di poesie: si sciolgano le cose che furono composte. Sono sillabe scritte con la severa cognizione della morte. Con grande timidezza e non sopita speranza, vorremmo dire: perché, nel turbine, le cose possano procedere ancora verso una nuova aggregazione.

L'Unità, 29 novembre 1994

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