Ci voleva William Weaver,
americano "italianato" ("diavolo scatenato" non
direi, ma traduttore temerario certo, se si è assunto l'impresa,
condotta del resto in porto benissimo, di tradurre in inglese Il
Pasticciaccio di Gadda), per darci quella biografia di Eleonora
Duse che ci mancava. Di "Duse", come si usava dire negli
anni della gloria mondiale dell'attrice, come più tardi si disse
"Garbo": i nomi di battesimo a perdere, per l'"inimitabile"
e la "divina", insomma le "supreme".
In una breve prefazione
al suo ricco, documentatissimo e leggibilissimo libro (Eleonora
Duse, Bompiani, pagg. 416, lire 30.000), Weaver ci racconta come
gli venne l'idea di scrivere questa vita, quando da lui, appassionato
di musica, specie di melodramma, ci si poteva aspettare magari una
Callas, ascoltata dal vivo nelle fantastiche stagioni della Scala
anni Cinquanta. Ma forse, callasiano o tebaldiano che fosse -
probabile la prima ipotesi, proprio a causa della passione che
l'argomento avrebbe potuto ridestare in lui - avrà rinunciato a
provarcisi. Racconta dunque il nostro come, un noioso pomeriggio che
si trovava, come dire, disoccupato a New York, "per ammazzare il
tempo" si infilò in una saletta di proiezione del Museo d'Arte
Moderna dove davano dei filmati di famose attrici dei tempi andati.
Passano immagini di Minnie Madden Fiske e la gente ride, di Sarah
Bernhardt, e le risate aumentano. "Mi vergogno di dire che anch'
io, per quanto crudele sentissi che la cosa potesse sembrare, non
riuscivo a trattenermi dal ridere". Ma ecco, compare sullo
schermo la Duse nel film Cenere,
da lei interpretato e in un certo senso diretto, almeno per quel che
riguardava i suoi gesti, i suoi sguardi. E mancava, eravamo ai tempi
del muto, la sua voce stregante. Si trattava di lei al declino della
carriera e della vita, con i capelli bianchi al naturale e senza il
trucco, che aveva sempre rifiutato. Nessuno ride più, l'attenzione
si fa intensa, appassionata in tutti.
Weaver si rende conto, da
quella testimonianza imperfetta, che la statura artistica
dell'attrice doveva essere ben degna del nome magico che lui aveva
tante volte incontrato, infaticabile archeologo, se così si può
dire, di fatti artistici dell'età di Verdi e di Puccini. Essa
meritava una ricerca che ne rivelasse i segreti umani e
professionali, ne storicizzasse l'importanza nel suo tempo. Bisogna
ringraziarlo del suo lavoro perché, fra l'altro, se la gran donna
domina il quadro, il quadro stesso risulta fitto di ritratti di
persone che ancora ci interessano e che lei - più, tanto più
(D'Annunzio) o meno (Pirandello) - aveva, nel corso della sua
fortunosa esistenza, toccato.
Nata nel 1858 e morta nel
1924, la Duse attraversa (figlia d'arte, diciamo di guitti, entra in
palcoscenico la prima volta a cinque anni) l'intera, o quasi, seconda
metà dell'Ottocento e il primo quarto del Novecento. Attraversa pure
oceani, pianure, montagne poi che, da un certo momento in là, da
prestissimo, recita, in italiano, più all'estero che nel suo paese.
E all'estero di polmonite muore, interpretando La donna del mare
dell'amato Ibsen per gli americani, nella fumosa, inquinata,
metallurgica e tuttavia non priva di tradizioni culturali Pittsburgh.
E già che ci siamo, quel che conta di più, aggiungiamo che ella
attraversa, o vorrebbe, i movimenti artistici più vivi succedentisi
negli anni della sua vita. Perché "vorrebbe", e raramente
può? Perché il pubblico la esige nella Signora delle Camelie,
in Sardou e Giacosa e Scribe, la accetta senza entusiasmo quando si
avventura nell'Ibsen più arduo, quello di Rosmersholm.
Fra le testimonianze
singolari, anche commoventi, che troviamo nel libro, questa, scritta
dopo la prima dell'Antonio e Cleopatra messo in scena con
scarsi mezzi ma grande passione a Pietroburgo (meno male che qualche
Shakespeare la Duse riesce a inserirlo nel suo repertorio; in fondo
con Shakepeare aveva cominciato, interpretando Giulietta alla stessa
età della sfortunata eroina adolescente). "Ho visto l' attrice
italiana Duse nel ruolo di Cleopatra. Non conosco l'italiano, ma
recitava così meravigliosamente che mi sembrava di capire ogni
parola. Che stupenda attrice..." Chi scrive è Anton Cecov. Ma
quando mai le toccò di recitare Cecov? Così saranno entusiasti di
lei, avendola sentita recitare in lingua a loro sconosciuta, ma è
chiaro che doveva avere un fascino incredibile, mai più toccato in
sorte a nessuna nostra attrice, G.B. Shaw, Rainer Maria Rilke,
Hofmannsthal, James Joyce, che ne teneva una fotografia sul suo
tavolo a Dublino negli anni della giovinezza e, udite udite, Charlie
Chaplin.
Siamo nei giorni dell'
ultima, fatale tournèe americana, cui la Duse si è decisa
soprattutto per motivi economici. È rimasta all'asciutto dopo più
di dieci anni di quell'abbandono delle scene, fra il 1910 e il 1920
circa, da lei deciso forse in seguito alla fine traumatica della sua
liaison amorosa e artistica con Gabriele D' Annunzio. Ci
torneremo, ma lasciateci dire di Chaplin. Il 19 febbraio del 1924, un
mese prima delle sue recite nel Nord, a Pittsburgh (oh, viaggi
incredibilmenti disagiati, squallidi ed eroici, delle nostre rinomate
compagnie di prosa di un tempo, chi scriverà il vostro romanzo, chi
dirigerà il vostro film?), la Duse apre a Los Angeles con La
porta chiusa di Marco Praga. Subito, il giorno appresso, sul Los
Angeles Times esce questo giudizio: “È senza dubbio una donna
vecchia, ma si sente in lei una bambina infelice, il palpito di un
grande cuore. Risultato: un' artista perfetta... La Bernhardt
risultava sempre studiatissima e, più o meno, artificiosa. La Duse è
diretta e terribile". Poco più in là, in riferimento alla
regia che, è noto, andava attribuita all'attrice stessa:
"...potessimo dirigere un film come lei ha diretto questa pièce,
non rispettando, anzi violando coscientemente le regole, sia sulla
comparsa degli attori in scena che sull'uso delle luci ecc...".
L' entusiasta autore dell'articolo è Charlie Chaplin, che già nel
1920 aveva diretto quel capolavoro di interpretazione e di regia che
è il Monello.
Fra tanti tentativi
abortiti di recitare opere del "teatro di poesia" allora
nato in giusta alternativa al teatro naturalista, ormai sul finire
del suo ciclo fisiologico, teatro di poesia da cui ella si sentiva
particolarmente attratta (sino all'ultimo sognò di interpretare
opere di Yeats e di Claudel), l'unico riuscito fu, ma zoppo, quello
compiuto negli anni del suo sodalizio artistico-erotico con
D'Annunzio. Dopo recite e recite di Città morte, Gioconde,
Francesche, tenute in vita sul palcoscenico dalla sua grande arte, ma
nate morte, quando finalmente Gabriele riesce (sono i tempi di
felicità creativa delle Laudi) a scrivere il suo capolavoro
teatrale, La figlia di Jorio, l'amante si è trovata una
partner giovane e bella, la marchesa di Rudinì, il drammaturgo si è
scelta, come Mila di Codra, la nascente attrice Irma Gramatica. Ho
appena sfiorato l'argomento Duse-D'Annunzio, che è raccontato con
grande obbiettività da Weaver; e già lo aveva raccontato con
scarsissima obiettività D' Annunzio stesso, è arcinoto, nel suo
romanzo, piuttosto greve se pur non privo di belle pagine
descrittive, che s'intitola Il Fuoco. Un libro che fece
scandalo, in quegli anni. Luci e ombre, più ombre, o se volete
chiamarle peccati, da parte del Poeta che dell'Attrice. La quale, se
mai, e questo è un lato della personalità della Duse che Weaver non
nasconde, poteva spesso mostrarsi eccessiva nei suoi trasporti, forse
più verbali che fisici (le lettere, i telegrammi, gli esclamativi,
le maiuscole), così da ingenerare noia nel poeta, che pure non
scherzava, in fatto di parole. E non scherzava in fatto di donne,
fossero esse "camieriere, contadine, contesse, baronesse" o
grandi artiste di teatro, e non pare soltanto "pel piacer di
porle in lista".
“la Repubblica” 2
giugno 1985
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