Franco Fortini |
LA SPEZIA. C'era un
ufficio, alla Olivetti a Milano, con due scrivanie: quando nel 1958
Giovanni Giudici prese il suo posto in quella stanza si trovò di
fronte Franco Fortini. Prima timidamente poi intensamente i due
intellettuali scoprirono l'amicizia. A Milano li univa la poesia,
alla Spezia la visione del mare. Franco Fortini e Giovanni Giùdici
per anni si sono scambiati fogli e impressioni, là nelle nebbia
lombarda. Poi si sono sistemati in questi promontori di profumi:
Fortini con la finestra rivolta alla Bocca di Magra di Vittorio
Sereni e Elio Vittorini. Giudici con lo sguardo teso agli anfratti di
Byron e Shelley (Un poeta del golfo è il titolo del suo
ultimo libro di versi e prose che Longanesi manda in libreria in
questi giorni).
Giovanni Giudici |
Giovanni Giudici, lei
si è trovato gomito a gomito con Fortini In un periodo cruciale,
dopo la pubblicazione della raccolta di saggi «Dieci Inverni» - del
1957 e prima dell’uscita del versi «Poesia e errore» del 1959.
Che ha rapporto ha avuto in quel momento con Fortini?
A quell'epoca ho avuto
con Fortini una frequentazione quasi quotidiana, dovuta in parte a
questioni lavorative, in parte ad una nostra scelta. Al tempo in cui
andai a lavorare alla Olivetti in via Baracchini, lui era già
diventato consulente ma quasi ogni giorni ci incontravamo. Fortini ha
avuto una grande vocazione pedagogica. Confesso che gli devo molto in
termini di formazione personale, sentendomi al suo cospetto quasi
come un ripetente; ho imparato da lui a studiare molte cose e
soprattutto a lavorare sui testi poetici. È stato Fortini a
introdurmi negli studi di Hegel e di Lukacs, è stato lui a farmi
conoscere Giacomo Noventa, la sua spiritualità aristocratica e la
sua vena popolare. Per due-tre anni la nostra è stata una
consuetudine importante, prima privata e poi sostanziale. Col tempo i
nostri rapporti si sono allentati, come spesso avviene nella vita
delle persone e nelle storie di amicizia. Negli ultimi venti anni, la
nostra è stata una frequentazione saltuaria e sporadica anche se il
confronto si è mantenuto a distanza.
L'ultima volta che l'ho
visto, due anni fa, è stato a Bocca di Magra, dove si pensava di
fare qualche iniziativa per ricordare Vittorio Sereni. La sua
malattia è stata devastante, molto crudele con lui. Leggevo i suoi
articoli su «L’Espresso» e capivo che stava dosando le forze per
continuare a esprimere il suo pensiero sino alla fine. '
C’è stato uno
scambio di informazioni anche sul piano più strettamente poetico tra
voi?
C’era una sorta di
complicità non dichiarata, direi quasi cauta. Io gli facevo leggere
molte delle mie poesie, alcune delle quali furono poi pubblicate su
«Menabò». Anche lui mi fece leggere delle poesie: ricordo «Poesia
delle rose», che ritrovo oggi in un vecchio dattiloscritto con molte
sue varianti autografe, e ricordo una poesia intitolata «Una
risposta», un testo dedicato all’amico Valentino Bucchi. Conservo
ancora un biglietto scritto a mano da Fortini, accluso alla rivista
che all’epoca pubblicò la poesia: «Leggi, lettore buono: ma, ti
scongiuro, non leggere quasi dovessi tu scrivere: vizio a noi due
comune...». Quello era il periodo a cavallo del libro «Poesia e
errore», con chiaro riferimento a un famoso titolo di Goethe che era
«Poesia e verità».
Ho sentito la sua
vicinanza come un privilegio perché lui ha contribuito a cambiare o
meglio a far diventare se stessa la mia poesia. Mi ha stimolato a
superare la dimensione del Novecento, a rileggere i classici delle
letteratura europea. .
L’avversione di
Fortini verso la politica come mezzo per conquistare il potere, lo
colloca in una dimensione fortemente critica dell'esperienza
italiana. Come lo definirebbe in termini politici?
Un compagno scomodo.
Nonostante le apparenti spigolosità delle sue posizioni, Fortini è
stato un punto di riferimento costante di tutta la sinistra. Il suo
procedimento era dialettico, le sue aperture e il suo lucido
intellettualismo invitavano a capire più a fondo i processi
politici. In questo senso Fortini ha mostrato una grande versatilità,
sia nei suoi saggi che nelle sue poesie.
Qual è stato il
periodo che vi siete frequentati con maggiore assiduità?
Quello della elaborazione
dei «Quaderni pacentini». Ricordo un inverno, quello tra il 1962 e
il '63, quando ci riunivamo in una biblioteca di Corso Venezia a
Milano. Per tutto quel lungo inverno abbiamo letto Teoria del
romanzo di Lukacs. Fortini dirigeva questa lettura, a cui
partecipava una decina di persone, tra cui Bellocchio, Bologna,
Scabia e Grazia Cherchi. Ognuno di questi, a ogni tornata, a ogni
seduta, era incaricato di fare una relazione e di verbalizzare la
discussione. È un fatto che, a ripensarci, mi commuove. Oggi non lo
farebbe più nessuno.
Gli autori preferiti
di Fortini erano quelli che tradusse?
Fortini aveva molti
interessi. Certamente Paul Éluard. Studiò sempre a fondo Goethe
sino ad elaborare la traduzione integrale di «Faust». Il suo punto
di riferimento politico era Bertold Brecht. Ma più in generale
Fortini possedeva un senso di curiosità per la cultura umana. Basta
leggere la voce «Classico» da lui scritta per l’Enciclopedia
Einaudi. Puntualità e rigore si accompagnano ad una alta capacità
di scrittura. E la sua costante citazione di classici non va intesa
come un vezzo intellettuale ma come una materia dalla quale trarre
spunti per il presente.
Come va interpretata
la religiosità di Franco Fortini?
Era una persone piena di
rigore e di fede nella trasformazione. Uno spirito fortemente
religioso, dissipando ogni equivoco sul termine, con una sua precisa
escatologia e uno specifico regno dei fini. Non so se ha fatto
professione di ateismo, so che il suo essere religioso gli veniva dal
periodo passato a Firenze, quando lui si era avvicinato al mondo
evangelico. Il suo spirito religioso non va inteso come culto ma come
richiamo alla legge, a qualcosa che sta sopra di noi.
E il Fortini
insegnante, com'è stato?
Ha svolto con precisione
e diligenza il suo ufficio di insegnante, prima nelle scuole medie,
poi negli istituti tecnici e quindi all'Università di Siena. Spetta
dunque ai suoi alunni un giudizio. Ma, ripeto, conoscendo le sue
capacità pedagogiche, credo che lo abbia svolto nella maniera più
confacente.
Qual è l’ultimo
messaggio che Fortini ci lascia?
È racchiuso nel libro di
poesie dal titolo profetico, «Composita solvantur», da poco uscito
da Einaudi,- che segna il momento più alto della sua lirica e un
momento altissimo della poesia di questi anni. Per uno strano gioco
del destino domenica prossima avrebbe dovuto ricevere a Empoli il
premio Pozzale. Forse sarebbe stata quella l'occasione per il suo
ultimo messaggio. Ma basta un verso soltanto di quel libro per
ricordarcelo: «Proteggete le nostre verità», un verso che rimanda
a «Poesia e errore»: «Lasciateci la nostra verità/ imperfetta,
umiliata:/ tra la rivoluzione che è passata/ e quella che verrà».
l'Unità, martedì 29
novembre 1994
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